Zona rossa
Di Redazione
Non è facile prendere parola su quanto accaduto alla fine dello scorso agosto in quel lembo di dorsale appenninica ai confini tra Marche, Lazio e Umbria, quando un terremoto di magnitudo 6.2 alle 3.36 di notte, seguito da altre scosse, ha sconvolto la tranquilla quotidianità di paesi e frazioni montane, appartate e silenziose. Accumoli, Amatrice, Arquata, Pescara del Tronto e gli altri piccoli borghi non esistono più per come li conoscevamo. La scossa li ha quasi letteralmente rasi al suolo, lasciando sotto le macerie oltre trecento morti. Non c’è residente che non abbia perso almeno un familiare o un amico. Ogni parola rischia di suonare vana di fronte al lutto e al dolore.
Nei giorni successivi alla tragedia l’Appennino si è riempito di sciacalli. Bestie che si nutrono di animali uccisi da altri predatori. Frotte di giornalisti da tutta Italia e anche dall’estero, in posa davanti a case sbriciolate e in cerca di dolore fresco da succhiare con i loro microfoni per confezionare il “servizio”. Quale sia lo sguardo di un terremotato ce lo mostrano invece i fotografi con le loro gallery e fotoracconti della tragedia: per il grande pubblico è questa l’informazione che conta. Serie di scatti che senza alcun pudore violano l’intimità e la dignità di persone che in un attimo hanno perso la casa e gli affetti, per mostrare al pubblico quello che già tutti sanno.
E poi c’è l’apparato dei soccorsi. Competenze che non tutti possiedono, indispensabili, da un certo punto di vista, per estrarre corpi intrappolati, salvare vite umane, garantire assistenza immediata. “Grazie” è, a ragione, una delle parole più pronunciate in simili scenari. Poi però un mare di pettorine di tutti i colori prende ad affollare strade e sentieri di questi paesi di montagna, ognuno a prendere ordini da qualcun altro, ognuno a organizzare qualcosa, “soprattutto – è stato scritto – la loro stessa permanenza nel luogo”. Quanto abbiamo visto succedere a L’Aquila pochi anni fa ce lo ha insegnato: la macchina dell’emergenza si muove come un esercito di occupazione. Considera gli sfollati persone a ridotta capacità d’intendere e volere, materia inerme da accudire, rifocillare, tranquillizzare.
Ma questa volta abbiamo visto anche esempi positivi di come ci si possa muovere nell’emergenza. Le Brigate di solidarietà attiva, gli anarchici abruzzesi del Campetto occupato e altri compagni e compagne da tutta Italia, con impostazioni e modalità operative diverse, ci hanno fatto riscoprire il significato profondamente umano delle parole solidarietà e condivisione. Hanno ricordato a tutti, e in primo luogo a loro stessi, che i sopravvissuti sono in grado di prendere decisioni e di autodeterminare il proprio presente.
Il momento immediato della catastrofe non è un buon momento per far leva sulle capacità di autorganizzazione delle comunità colpite, soprattutto in una società in cui il concetto di “comunità” di persone che abitano lo stesso territorio è assai indefinito. Presto, però, bisogna pur riprendere in mano le proprie vite, per non rimanere in balia di decisioni prese dagli stessi che, come abbiamo già visto altrove, recintano le tendopoli e – “per la vostra sicurezza” – chiedono di esibire i documenti all’ingresso e ostacolano la formazione di qualunque comitato spontaneo. Sul lungo periodo però, per la messa in sicurezza e la ricostruzione ci vogliono soldi. Tanti soldi. Che li tiri fuori lo Stato, senza tante storie. Chi volesse personalmente anche tramite del denaro far giungere la propria vicinanza alle popolazioni colpite si risparmi gli sms e dimentichi l’iban della Protezione civile, ma lo faccia attraverso i canali diretti che sono stati attivati.
La brutalità del terremoto ci ha messo sotto gli occhi l’estrema fragilità di questi paesi appenninici. Borghi montani di grande suggestione che da troppo tempo fanno i conti con lo spopolamento e ritrovano un po’ di vita giusto in estate, quando le tante seconde case accolgono gli abitanti delle città e i nipoti vanno in vacanza dai nonni. La proporzione tra morti e abitanti, anche al netto dei turisti presenti nel luogo sbagliato al momento sbagliato, fa impressione. I comuni di Amatrice e Accumoli in provincia di Rieti, contano circa 2.650 e 650 abitanti. Nel versante marchigiano, Arquata del Tronto ne ha 1.200, con tutta una serie di piccole e piccolissime frazioni (Pescara del Tronto, Colle, Pretare ecc.) abitate da un pugno di residenti. La popolazione già in allerta ha reagito con prontezza e lucidità alle successive scosse di ottobre e novembre, evitando così per ora nuove vittime. Ma alla mappa dei crolli si aggiungono altri punti chiave della geografia appenninica: Camerino, Visso, Ussita, Norcia per citarne solo alcuni.
L’autunno è già arrivato, le prime nevicate sono alle porte. Si prospettano mesi difficili, soprattutto per coloro che stanno resistendo alla tentazione di un parcheggio in qualche lontano albergo. Confidiamo nella tenacia che sappiamo caratterizzare questi paesi di montagna, auspicando che quanti hanno lì cuore, legami e radici prendano davvero in considerazione l’idea di tornare a rivitalizzare un territorio che non ha nulla da invidiare alle grandi città o alle coste, per riprendere il filo che il terremoto ha momentaneamente spezzato. Stiamo seguendo l’evolversi della situazione, ne daremo conto sui nostri canali online e sul prossimo numero della rivista.