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Da Pesaro a Salonicco: complici e solidali contro ogni frontiera (#5)

Da Pesaro a Salonicco: complici e solidali contro ogni frontiera
Di Gianluca

Salonicco, campo profughi, agosto 2016
Salonicco, campo profughi, agosto 2016

 

Dei campi profughi, nella coscienza collettiva occidentale, si ha un’idea abbastanza astratta. La percezione di precise responsabilità storiche è falsata da una presunta estraneità della nostra cultura da simili barbarie. Se ne parla solo in riferimento a paesi altri, ovviamente più poveri e conflittuali, ovviamente fuori dai confini continentali. Proprio non ci si ricorda, purtroppo, di quanto la storia di questa Europa sia densa di accampamenti di disperati fuggiti da guerra e devastazione. E quando non c’è memoria la storia si ripete implacabile, incurante della sofferenza che produce. Tuttavia la questione dei profughi provenienti dai conflitti scatenati in Medio Oriente negli ultimi anni ha assunto dimensioni impressionanti, segno tangibile di quanto le guerre di “pacificazione” a firma NATO abbiano stravolto paesi come l’Iraq e l’Afghanistan. Lo stesso vale per un certo interventismo indiretto, che si muove tra complicità diplomatiche ed esasperazione dei conflitti locali, che nel caso della Siria ha prodotto il massacro di cui quotidianamente siamo spettatori impotenti. Questo senso di impotenza, tuttavia, è stato progressivamente scalfito dalle storie di chi ha deciso di schierarsi, mettendo in gioco il proprio corpo e in alcuni casi la propria vita. Qui vogliamo raccontare una di queste esperienze. La storia di un viaggio, da Pesaro a Salonicco. Il luogo dove si consuma la vergogna di un’Europa fallita, crollata sotto il peso dei muri e strozzata dal filo spinato.

Salonicco, campo profughi, agosto 2016
Salonicco, campo profughi, agosto 2016

 

Circa venti persone provenienti un po’ da tutto il paese si sono incontrate a Pesaro, il 29 luglio 2016, allo Spazio popolare MalArlevèt, ospitate e supportate in questa esperienza dai compagni e dalle compagne del posto. Obiettivo dichiarato del viaggio, oltre la consegna degli aiuti, è il monitoraggio e la documentazione della situazione. Affinché nessuno dica non lo sapevo, mai più. La Carovana per Salonicco, partita il 30 luglio dal porto di Ancona, composta da individualità provenienti dalle esperienze più diverse, ha stretto contatti con gli abitanti dei campi, distribuito aiuti, documentato giorno per giorno le spaventose condizioni di vita, raccolto un’enorme quantità di foto, video, interviste. Attualmente si lavora alla produzione di una mostra e di un documentario, strumenti con i quali si vuole collettivizzare questa esperienza.

Ci siamo incontrati e confrontati con alcuni attivisti della carovana durante un’iniziativa sul tema allo Spazio popolare MalArlevèt di Pesaro. Ci hanno parlato del loro viaggio e chi di noi non è riuscito a partire ne ha compreso a fondo il senso. Ci hanno raccontato dei campi visitati, dei loro orribili nomi. Nea Kavala, Oroekastro “Cimitery”, Softex, Vasilika, Sindos. Vecchie fabbriche abbandonate, luoghi sperduti nel nulla agli estremi margini della città, concerie che emanano in continuazione un tanfo orribile a cui non ci si abitua mai, enormi distese di pietre e di polvere. Luoghi in cui la vita è dura a partire dalla terra su cui sorgono. Torridi sotto il sole rovente dell’estate greca, allagati e immersi nel fango alla prima pioggia. Salonicco ospita più di 47.000 richiedenti asilo. Ogni dieci persone ci sono ben quattro minori non accompagnati, esposti dunque ai rischi più disparati, fatto confermato di recente anche dall’«Observer» che citando fonti dell’ONU ha confermato l’esistenza di episodi di abusi sessuali su minori nei campi greci. La Grecia, con Salonicco in testa, è divenuta il cuore della vergogna europea. Se altrove si erigono muri e filo spinato, è proprio in questo paese colpito dalla crisi che si è creata un’enorme bolla in cui i migranti vengono parcheggiati in attesa dello status di rifugiati, il che richiede tempi lunghissimi.

Salonicco, campo profughi, agosto 2016
Salonicco, campo profughi, agosto 2016

 

A produrre questa situazione sono molti fattori. Lo sgombero di Idomeni, gli accordi UE-Turchia sull’immigrazione, la chiusura a macchia di leopardo di gran parte della rotta balcanica, gli enormi rischi dei viaggi in mare che inducono molti a viaggiare via terra. In maggioranza siriani e curdi, ma anche irakeni e afghani, chi non vive per strada è abbandonato a se stesso nei campi governativi. In queste strutture la miseria materiale si mischia a condizioni di vita degradanti in cui la dignità umana è messa a dura prova. L’assistenza medica è sporadica e insufficiente nei mezzi e nel personale a disposizione, il cibo che viene distribuito è spesso avariato o comunque di pessima qualità, la carenza d’acqua potabile non fa che aggravare la situazione tra l’infiacchimento della popolazione e le pesanti ricadute igienico-sanitarie, le continue tensioni tra i vari gruppi etnici contribuiscono infine a rendere ancora più insostenibile una situazione esplosiva.

A tal proposito ci ha molto colpito la storia degli yazidi, che hanno abbandonato in massa il campo in cui erano ospitati dopo forti tensioni con alcune comunità islamiche. 400 persone che si sono trasferite nel bel mezzo del nulla, senza tende né coperte, senza cibo né acqua. Il tutto per essere poi trasferiti in maniera coatta in un altro campo, sotto controllo militare. Ancora bloccati, ammassati e messi da parte. Molte altre sono le minoranze che subiscono le particolari dinamiche di sopraffazione che sovente proliferano in situazioni di questo genere. La violenza e il pregiudizio non fanno che riprodurre violenza e pregiudizio, come nel caso di una coppia di ragazzi siriani omosessuali, determinati a condurre insieme e senza vergogna il proprio viaggio nonostante il retroterra culturale con cui si confrontano sia molto ostico e complicato. Questi ragazzi, così come la comunità yazida, costituiscono probabilmente quelle categorie in un certo senso protette, perché particolarmente attenzionate dalle varie organizzazioni umanitarie operanti sul campo, comprese le agenzie dipendenti dall’ONU. Decine di migliaia di altre persone, invece, sopravvivono a stento nei campi e nel peggiore dei casi addirittura in strada. Ci viene raccontato, infatti, di un’intera famiglia afghana, con una donna in procinto di partorire, accampata sull’asfalto. Isolamento e guerra ai poveri, questo succede nel cuore dell’Europa.

I movimenti sociali ovviamente non stanno a guardare. Nel corso delle interviste viene ribadito che la società greca ha risposto all’emergenza aprendo le proprie case, impegnandosi in prima persona in percorsi di supporto e solidarietà attiva. Sono fiorite nel corso degli ultimi anni le occupazioni abitative, gli ambulatori popolari, gli spacci alimentari, diverse raccolte di aiuti e beni di prima necessità, momenti importanti di lotta al fianco dei migranti in transito nel paese. La risposta repressiva è stata ovviamente brutale e proprio nei giorni in cui la Carovana era a Salonicco si sono svolti due importanti processi a carico di alcuni attivisti (greci e internazionali) arrestati a seguito del No Border Camp e di diversi sgomberi coatti di storiche occupazioni abitative in sostegno ai rifugiati. I compagni e le compagne provenienti dall’Italia hanno così colto l’occasione per portare la propria solidarietà davanti al tribunale di Salonicco, per ribadire ancora una volta la complicità contro chi combatte le politiche razziste dell’UE.

Salonicco, campo profughi, agosto 2016
Salonicco, campo profughi, agosto 2016

 

La progettualità politica dei movimenti sociali e le pratiche assistenzialiste per forza di cosa cozzano e coesistono al contempo. Le esperienze di autogestione sono soffocate sul nascere perché partono dal basso, producono autonomia e partecipazione, soprattutto non alimentano il sistema dei bandi di concorso e il circuito dei progetti europei che danno carta bianca alle ONG accreditate. Una costellazione complessa che si alimenta del volontariato, soprattutto giovanile.

Tuttavia il protagonismo dell’enorme massa di persone bloccate a Salonicco non ha tardato ad emergere. Proprio nei giorni in cui la Carovana monitorava la situazione sul territorio e si interfacciava con le diverse comunità esistenti ci sono stati diversi momenti di mobilitazione, anche abbastanza tesi. L’incendio di alcune strutture nel campo di Softex, sit-in, assemblee e marce pacifiche si sono alternate per alcuni giorni. I motivi di maggiore malcontento restano la carenza di acqua, la pessima qualità del cibo che benché sigillato arriva già avariato, l’assenza di assistenza medica, lo spaccio di eroina che dilaga sotto gli sguardi indifferenti delle autorità. In questo contesto basta un piccolo episodio per esasperare una situazione già di per sé al limite. Si muore di parto, le condizioni psicologiche sono al limite. Da tutto ciò sporadicamente queste persone provano ad emanciparsi dando vita a momenti di rivendicazione anche importanti, ma fortemente indeboliti dall’isolamento e dalla dura repressione che ha colpito i movimenti sociali di supporto.

Salonicco, campo profughi, agosto 2016
Salonicco, campo profughi, agosto 2016

 

Terminato l’incontro ci guardiamo basiti. Cerchiamo una strada praticabile, una via di uscita percorribile. Il problema resta la frontiera, le politiche migratorie dell’UE, l’isolamento politico di queste persone, la mistificazione mediatica dei fatti, la complicità delle ONG in una gestione dei campi ai limiti della barbarie. Penso ai video di propaganda del governo greco in cui i campi vengono spacciati per strutture all’avanguardia. Penso ai ragazzini che si litigavano a spinte un po’ di affetto intorno ai nostri compagni che distribuivano giochi. Penso a Save the Children e alla monopolizzazione dei campi loro assegnati, tanto da impedire al “personale non qualificato” la consegna di fogli di carta e pennarelli colorati. Penso ai leghisti da bar e a quelli che sostengono di aiutare i siriani a casa loro. Poi realizzo ancora una volta che casa loro non esiste più. Penso all’intervista di un ragazzino appena sedicenne, solo in Europa dopo aver lasciato la propria casa in macerie con sotto l’intera famiglia. Era uscito a comprare il pane.

Salgono la rabbia e il senso di impotenza. Cresce la consapevolezza di un’urgenza. Raccontare la vita e le aspirazioni di queste persone, disumanizzate dall’enorme macchina mediatica che tutto fagocita nel suo resoconto generalista. Non una massa di disperati, ma un popolo in cammino. Questa mi sembra la chiave giusta, la presa di posizione che può scardinare il pietismo e l’assistenza che dura il tempo dell’emergenza. Un popolo in cammino va sostenuto nel proprio diritto a muoversi liberamente. La complicità e la solidarietà attiva, ancora una volta, sembrano essere l’unico vero martello capace di distruggere le frontiere e le sofferenze che generano in milioni di persone in tutto il mondo.

 

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