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Costruire stando in mezzo alle api (#5)

Costruire stando in mezzo alle api
Intervista a Tommaso di Apicoltura Corbecco

L’apicoltura Corbecco è presente da parecchi anni sulle nostre colline. Fa parte del circuito Genuino Clandestino ed è una realtà che riesce a “funzionare” basandosi su una mentalità e un modello organizzativo ben distanti dalla tipica impresa aziendale. Il suo percorso e le sue prospettive si inseriscono nelle sperimentazioni di un modello di economia alternativa al sistema economico dominante, un modello fatto di relazioni orizzontali, reti territoriali e partecipazione. In questa intervista Tommaso ci racconta la sua storia, il legame con il territorio e il mondo agricolo, le difficoltà superate e da superare, la lotta costante ai condizionamenti che il mercato vorrebbe imporre, il concetto di “garanzia partecipata”, i limiti della certificazione biologica e tanto altro.

Tommaso e le api - Foto di Andrea Simonetti
Tommaso e le api – Foto di Andrea Simonetti

Ci racconti come e quando hai iniziato la tua attività di apicoltore?

Appena quindicenne, dopo aver rubato un saggio sulle api dei primi del Novecento in un banco di libri usati, vengo travolto da un forte interesse e curiosità appassionanti. Io e Alessandra ci cimentiamo con i primi sciami naturali intorno al 2001, dopo che ci era morto il primo alveare acquistato in un impeto di fascinazione. La nostra attività si sviluppa nel contesto del gruppo di acquisto solidale di Pesaro, che è stato uno dei primi Gas della nostra zona. In quell’ambito ho avuto la possibilità di vendere i primi barattoli, che all’epoca erano più che clandestini, e questo mi ha permesso di cominciare a far esperienza e sperimentare il mondo dell’apicoltura senza alcun tipo di ansia imprenditoriale e senza dovermi porre troppi problemi, soprattutto quelli che derivano dall’aprire una partita iva sostenendo costi ingiustificati in quello che, se non si è figli d’arte, costituisce un salto nel buio. Questo fu possibile solo perché ero inserito in una piccola comunità che proteggeva questa mia ricerca personale. Nel frattempo per campare facevo altri mestieri: lavoravo come operaio, poi come imbianchino e poi nei cantieri in bioedilizia.

In seguito questa passione per le api è diventata una cosa importante e richiedeva un sacco di tempo. A un certo punto ci siamo resi conto che se volevamo portarla avanti bene dovevamo dedicarci a pieno. Con grande tranquillità e senza aver idea se fosse un mestiere remunerativo, ho quindi deciso di abbandonare i cantieri per fare dell’apicoltura la mia attività prevalente. Solo più tardi abbiamo aperto l’azienda agricola e abbiamo aumentato i volumi della produzione, sempre un passo alla volta. Non abbiamo mai comprato api ma sempre riprodotto i nostri alveari dandoci il tempo di crescere con loro. Esiste un rapporto tra il volume di miele e il numero di alveari che un singolo apicoltore riesce a produrre e a gestire. Penso che facendo apicoltura biologica il livello a cui siamo noi oggi rappresenta circa questo limite. Questo equilibrio fatto di attitudini e compromessi con il mercato ci consente di tirare fuori un reddito dalla nostra attività, cosa che non è affatto scontata. Un’altra volta magari parleremo delle ore di lavoro necessarie a far quadrare il cerchio e come affrontiamo il problema dell’autosfruttamento…

Su che territorio sono presenti le arnie e che tipologie di miele producete?

Il modo in cui gestiamo gli alveari sul territorio è legato alle modalità con cui abbiamo avviato l’attività. All’epoca abitavamo in affitto in una casa alle Cesane, la zona collinare vicino a Urbino, senza terra e senza possibilità di installare un laboratorio. Infatti lavoravamo il miele in condizioni molto precarie, praticamente in una camera da letto. Non avendo terreni di proprietà e d’altra parte non essendo le Cesane un posto particolarmente produttivo, una nostra caratteristica è stata fin da subito quella di cercare di allargare l’areale. Ci siamo ritrovati a spargere in giro gli alveari presso case di amici e aziende affini praticando un po’ di nomadismo. Questo ci ha dato la possibilità di entrare in profondità nelle caratteristiche dei territori esplorandoli attraverso le api. Ora le sensazioni che mi evocano un bosco, un frutteto o una brughiera arsa sono fortemente condizionate da questa specie di lente deformante che porta occhi compositi come un’ape e da cui dipendono anche gli interessi legati alla botanica.

In particolare abbiamo iniziato a sperimentare i mieli monoflora, in un periodo in cui ancora nelle nostre zone la produzione era quasi esclusivamente concentrata su acacia e millefiori. La scelta di puntare sui monoflora è stata per noi una scelta importante e non casuale in una realtà in cui fino a dieci o quindici anni fa il miele era per tutti quello liquido, tipo Ambrosoli, sempre uguale a se stesso in tutta Italia e in tutte le stagioni. Parlare di monoflora e di differenti cristallizzazioni ci permette invece di veicolare tante informazioni, di mostrare come il miele è un prodotto della biodiversità e profondamente legato al territorio. Noi stessi abbiamo con il tempo scoperto questo mondo e vendendo miele cerchiamo di trasmettere questa esperienza. Oggi mi muovo in un raggio di una cinquantina di chilometri da casa, con una quindicina di postazioni diverse, generalmente presso amici e in aziende agricole biologiche. Non nascondiamo alcune piccole “follie” come un apiario stanziale in Toscana e alcune postazioni in Basilicata, che giustifichiamo perché fanno parte di questa ricerca di sapori.

Quali sono le differenze principali tra il tuo miele e quello delle grandi aziende industriali che troviamo in vendita nella grande distribuzione?

Le differenze sono tante, a partire dalla qualità del miele e dal trattamento degli alveari. Di recente si è ricominciato a parlare in modo massiccio di frodi e adulterazioni del prodotto ma, al di là di questi casi estremi, quando si lavora su grandi quantitativi i compromessi sono all’ordine del giorno per massimizzare tempi e profitti. Nella logica industriale questo è del tutto normale; tuttavia sono pratiche insensate dal punto di vista della qualità del prodotto. Per la grande distribuzione si lavora acquistando delle partite e, mettendole insieme per fare dei miscugli il più possibile simili a se stessi, si perde qualunque specificità. Tutto viene omogeneizzato e pastorizzato, per cui si guadagna in stabilità del prodotto ma tantissime proprietà se ne vanno via. Poi c’è tutta la gestione degli alveari. L’apicoltura industriale è un’apicoltura che spreme al massimo la produzione dell’alveare. Io non ho una visione vegana, ma riconosco che per ottimizzare al massimo, l’industria mette in opera un vero e proprio sfruttamento, con costi ambientali anche importanti. Inoltre, come tutta l’agricoltura “convenzionale” anche l’apicoltura vive di chimica, di trattamenti per controllare i parassiti. Soprattutto negli anni Ottanta e Novanta alle api hanno dato veramente di tutto portando alla situazione difficile che abbiamo oggi, perché il risultato è stato selezionare parassiti e problematiche sempre più virulente e aggressive e, d’altra parte, api sempre più deboli, molto produttive ma anche molto fragili, sempre più dipendenti dall’intervento dell’uomo. Sostanzialmente una catastrofe per l’ecosistema, come tutta l’agricoltura intensiva.

Va però detto che sul nostro territorio l’apicoltura industriale non ha raggiunto livelli come quella statunitense, dove le grandi aziende possono avere anche quindicimila alveari. Da noi si ragiona nell’ordine dei mille al massimo perché l’apicoltura ha, anche storicamente, una tradizione tra virgolette sana. Esiste cioè una costellazione di medi e piccoli produttori che comunque hanno un senso, una storia, che affondano le radici in tradizioni locali. Spesso, quindi, il miele che viene venduto all’ingrosso non è il prodotto di grandi aziende industriali, ma proviene da tante realtà medio-piccole e di partenza avrebbe anche una certa qualità. Poi però il grossista lo rovina lavorandolo e standardizzandolo per commercializzarlo sugli scaffali della grande distribuzione. Anche qui nelle Marche la situazione è principalmente questa. Da un punto di vista esclusivamente economico, visto l’aumento costante del prezzo del miele (la domanda aumenta ed è sempre più difficile produrlo) e i quantitativi importanti che produciamo, a un’azienda come la nostra converrebbe sicuramente lavorare con i grossisti. Tuttavia la scelta di produrre cibo per la gente è obiettivo ben più gratificante dell’incasso di fine stagione o di qualche giorno di ferie in più, per cui ad oggi invasettiamo direttamente per la vendita al dettaglio lasciando al grossista solo le eccedenze. È raro trovare un’azienda delle nostre dimensioni che invasetta così tanto prodotto.

Una domanda a bruciapelo: ti consideri un “piccolo imprenditore”?

La mia apicoltura è di tipo artigianale ma può essere assimilabile anche a un’idea di realtà contadina, che va un po’ oltre; l’apicoltore non si limita infatti ad avere delle api e produrre del miele, ma è una persona che è inserita in un contesto di campagna e ha un rapporto diretto con l’ambiente circostante. Detto questo, per forza di cose mi sono trovato a dover fare l’imprenditore, cioè ad essere all’altezza di tutta una serie di richieste e questa situazione la vivo quotidianamente come un importante conflitto interiore. Questo senso di inadeguatezza e una certa consapevolezza sono indispensabili per non caderci dentro. Dentro quella mentalità imprenditoriale che poi porta a fare una serie di scelte che diventano concorrenziali, arroganti, arriviste. In questo è fondamentale non essere soli e circondarsi di un contesto fatto di una socialità vasta, rifiutando di affidarsi ai classici “consulenti” di sistema. Questo aiuta nelle piccole o grandi scelte che ci si trova ad affrontare e che determinano lo spartiacque tra cosa sono e cosa non voglio essere come realtà produttiva.

L’apicoltura inoltre richiede precisione, tempi serrati e una presenza continuativa. La misura è data semplicemente dall’osservazione e dall’imitazione delle api nella loro metodicità e nel loro ritmo di lavoro instancabile. Questo significa ripetizione, ottimizzazione, automatismi, quantità. Potrebbe costituire il seme marcio di una visione eccessivamente intensiva. È indispensabile mettere dei limiti alla crescita e allo sviluppo di un’attività, sostituendo l’industrializzazione con la diversificazione. Siamo anche noi agricoltori biologici e ci occupiamo dell’ecosistema come della persona nel suo insieme. Nella mia vita ho dovuto fare un percorso di decrescita per capire qual è la direzione che voglio dare al mio lavoro e questo, secondo me, fa la differenza con la mentalità dell’imprenditore. In questo ovviamente il passo è stato stabilito con chiarezza dalla presenza costante della mia compagna Alessandra e dalla sua visione femminile nel lavoro. Queste consapevolezze sono diventate concrete grazie all’incontro con Genuino Clandestino, proprio mentre mi stavo chiedendo dove mi avrebbe potuto condurre una logica di tipo imprenditoriale e cosa si può fare concretamente in direzione ostinata e contraria. Ed è stato il momento per capire che il castello che avevo costruito non sarebbe dovuto rimanere esclusivamente una mia proprietà, ma poteva essere rimesso in gioco all’interno di un circuito e diventare volano di altre iniziative.

Così l’apicoltura Corbecco è diventata una società di fatto a cui ognuno contribuisce con il proprio lavoro e con una cassa comune da cui attingere in base ai bisogni individuali. È stato semplice perché per ora siamo soltanto in tre. Il nostro nuovo socio è un compagno con cui abbiamo sempre fatto a metà di tutto, anche quando in tempi più duri non c’era niente da dividere. Abbiamo bisogni simili, 2+3 figli a carico e la musica, lo studio e l’attività politica valgono come le ore di lavoro. Come recita il nostro documento di garanzia siamo una società a sentimento. I lavori di cura, i turni per i pasti piuttosto che l’orto di casa sono parte integrante della nostra piccola economia. Questa impostazione è mutuata dalla vita contadina cui assomigliamo pur rimanendo a cavallo (o in bilico) tra l’essenza rurale e la realtà aziendale. Speriamo a breve di liberare risorse per far partire nuove iniziative e diversificare il nostro lavoro. Formalmente utilizziamo quella che si potrebbe definire una partita iva collettiva che è la forma meno costosa di essere in regola da un punto di vista assicurativo e contributivo. Un salto di qualità determinante sarebbe riuscire a costituire una cooperativa che possa raggruppare e tutelare le attività produttive affini del nostro territorio, mantenendo contabilità separate per quanto riguarda il lavoro e proprietà collettiva dei mezzi di produzione.

Prima hai fatto un riferimento a una visione vegana, che non ti appartiene, ma come ben sai negli ultimi anni è emersa con forza una sensibilità antispecista all’interno dei movimenti. L’apicoltura è una forma di allevamento, quindi anche se non raggiunge livelli macroscopici di sfruttamento come nell’allevamento di animali da carne o nella produzione di latte, da un certo punto di vista è comunque una forma di dominio dell’uomo su un’altra specie. Per noi, in redazione, questo è un discorso aperto e con molti punti interrogativi. Tu cosa ne pensi? Quando sei nei mercati hai mai dovuto affrontare le rimostranze degli antispecisti?

Il miele è ancora un prodotto che sta su un confine. Se troppo spesso il vegano, ma soprattutto l’antispecista che non lo fa per scelta personale ma in modo militante, diventa violento nei confronti di chi non la pensa allo stesso modo, verso il miele questa violenza è mitigata. C’è sempre un margine di dialogo e di ragionamento. Se invece fossi un allevatore di altri animali con certe persone non potrei neanche parlare e già questo fa capire che in certi atteggiamenti c’è qualcosa che non va.

Il discorso sullo sfruttamento dell’alveare è un discorso davvero molto complesso. A mio parere non si tratta di una pratica di dominio e non soltanto perché non si pratica l’apicidio ma perché noi, facendo apicoltura, in realtà non facciamo altro che creare le condizioni perché le api possano dare il meglio, cosa che si verifica anche naturalmente in determinate circostanze. Mi spiego: ad una famiglia di api bastano 12 chili di miele per svernare, ma in stagione ne può raccogliere anche 50 o 60. L’apicoltore, con il suo lavoro, contribuisce a fare in modo che questa situazione si verifichi non solo in qualche caso ma che la gran parte delle famiglie di api possa produrre molto più miele di quanto in realtà le serve. In sostanza, si tratta di creare le condizioni per poter prelevare un di più.

L’utilizzo di tecniche particolarmente invasive da noi non esiste, anche se ci sono forme di contenimento tipo la “gabbietta” per le api regine, che è una pratica dal mio punto di vista pesante ma a cui in situazioni di emergenza non escludo di ricorrere. In ogni caso non mi sottraggo a un confronto su questi argomenti che credo andrebbe sviluppato in dei gruppi misti, con la partecipazione anche di vegani o antispecisti, perché non si risolve la cosa con un atteggiamento dogmatico per cui tutti quelli che si occupano di animali sono dei nemici.

Sui tuoi barattoli di miele c’è il marchio della certificazione biologica. Come ci sei arrivato e che valore gli attribuisci?

Quello è stato un passaggio per me molto importante e molto combattuto. Eravamo in una fase in cui non c’era ancora Genuino Clandestino ma capivamo che i Gas non bastavano più. Bisognava uscire fuori delle assemblee di nicchia in cui si parlava di produzioni virtuose e trovare il modo di proporre un paniere serio e completo, che potesse comunicare con tutti. Da questa esigenza è nata l’esperienza dei negozi a gestione partecipata. Gli empori di Fano e Urbino sono nati dopo tre anni di riunioni in cui un gruppo di produttori, insieme a delle figure che avevano interesse ad investirci, si confrontavano e scontravano immaginando come sarebbe dovuto essere il negozio dell’“altra economia”, rispettoso del produttore, del consumatore e del territorio. L’idea che potessero nascere dei negozi eticamente vicini al mio modo di vedere le cose e di produrre era una prospettiva decisamente attraente.

È stato quindi un percorso stimolante anche se, purtroppo, l’interesse privato alla fine ha prevalso sull’interesse collettivo. Nonostante la prodigiosa buona volontà di chi si è messo in gioco, questi ambienti della cosiddetta economia solidale non hanno assolutamente gli anticorpi sufficienti a isolare le logiche del profitto utilitaristico e quindi di fatto non sono stati in grado di portare avanti quelle che erano le istanze etiche dell’operazione. Questo è accaduto sotto vari aspetti. Uno dei fronti su cui abbiamo perso riguarda proprio la certificazione biologica. All’epoca delle assemblee costitutive io ero in un gruppo di lavoro che cercava di elaborare alternative alla certificazione biologica ufficiale. Ci sono piccoli produttori che lavorano bene ma non hanno le forze di certificarsi e d’altra parte sappiamo che le certificazioni vengono date da società pagate dagli stessi produttori, che fanno le porcate che vogliono. Spingevo invece per far passare una prima forma ancora embrionale di “garanzia partecipata”, proponendo una commissione interna al negozio che valutasse autonomamente i produttori. Al mio fianco c’erano però soggetti che avevano anche loro tutto l’interesse a non voler un negozio con certificazioni bio, ma per motivi opposti ai miei: perché tacitamente lavoravano con metodi convenzionali, con diserbanti nei campi e antibiotici nelle stalle. Alla fine la decisione non è venuta dai gruppi di lavoro, ma è stata la cooperativa che ci metteva i soldi e il rischio d’impresa a stabilire che il negozio sarebbe stato certificato biologico. Per questo sono stato in certo senso costretto a intraprendere anche la strada della certificazione biologica. Quando ho registrato l’etichetta ho messo la fogliolina del marchio bio, ma con a fianco la scritta “aderisce alla campagna Genuino Clandestino”. È una dicotomia stridente, che racconta le contraddizioni e gli sforzi del mio percorso.

Intravedi il rischio che anche Genuino Clandestino possa diventare un brand che va ad imporsi su una certa fetta di mercato?

È innegabile che Genuino Clandestino sia un logo incredibilmente attraente e non manca chi ha provato ad avvicinarsi perché aveva interesse a utilizzarlo come un marchio. Io come ho detto vengo dal percorso dei Gas, le mie scelte produttive non sono mai state dettate dalla ricerca del profitto in quanto tale. C’era di fatto e c’è tutt’ora una comunità a cui devo rendere conto, ci sono cioè persone che in me ripongono fiducia. E la fiducia è una cosa seria. Se io adesso penso di aver trovato un compromesso positivo tra la necessità di avere un reddito e le scelte lavorative è grazie al fatto che sono cresciuto in questo mondo. Nel mio percorso, e in quello che sarà di Genuino Clandestino, è assolutamente centrale il sistema di garanzia partecipata, di cui si era già iniziato a parlare nel circuito dei Gas. Citando dal manifesto di Genuino Clandestino: “i sistemi di garanzia partecipata sono lo strumento fondamentale per tessere relazioni fra città e campagna e sperimentare reti economiche alternative”.

Quando parli di una comunità a cui rendere conto il riferimento va a un contesto di nicchia, mentre l’agricoltura di massa è guidata da altre logiche ed è stata colonizzata anche nell’immaginario dal capitalismo più spinto e dal marketing più aggressivo, basti pensare a quello che è stato l’Expo di Milano. Un movimento come Genuino Clandestino tende a trasformare l’agricoltura dominante o, almeno in questo momento, punta a una specie di secessione, a collocarsi cioè in un ambito dove ci si possa garantire un proprio equilibrio sperando di non essere travolti dalla retorica dell’agricoltura mainstream?

Posto che è difficile per ora capire dove stiamo andando, il desiderio di fondo è creare delle realtà che sperimentino un’autonomia dal sistema, sviluppate su una base territoriale forte e su relazioni quotidiane partendo da bisogni primari come quello del fare la spesa. Sono piccoli embrioni di relazioni economiche alternative, che si basano su regole differenti da quelle del mercato. Posso essere solidale e sentirmi vicino con altri produttori che pur provenendo dal mio stesso percorso hanno fatto un salto grande, indebitandosi e sacrificandosi alle richieste del mercato. Questa di fatto è una sconfitta perché molte avanguardie sono state puntualmente riassorbite dal sistema, per cui alla fine ci si ritrova dentro le contraddizioni da cui si stava scappando. Questa consapevolezza secondo me è un po’ più matura dentro Genuino Clandestino che altrove. Se in ambito RES [Rete di economia solidale] parlare di anticapitalismo è diventato quasi un tabù, viene da chiedersi che fine hanno fatto i nostri alternativi e pionieri del primo biologico.

La realtà dei mercati di Genuino Clandestino che vedo qui in zona fa ancora fatica a ricollegarsi con il mondo agricolo del territorio. Il nostro è un collettivo di compagni con una certa idea dello stare insieme, molto legato anche all’aver fatto delle scelte al di fuori dell’economia ordinaria. In prospettiva c’è il desiderio che il nostro mercato diventi un vero e proprio mercato dei contadini del territorio che sono disposti al confronto e ad autogestire i propri progetti con pratiche assembleari. Non si richiede nessuna appartenenza. Per noi fare politica è esclusivamente la partecipazione. Non abbiamo alcun interesse a farlo diventare un mercato in regola gestito da un qualche organizzatore, perché perderemmo il valore dell’autogestione, dell’assemblea di mercato che elabora un messaggio politico da trasmettere. In questo siamo profondamente diversi da tutti gli altri mercati in città.

Oltre a questo, va detto che un progetto di costruzione di un’economia alternativa non può basarsi solo sul prodotto biologico ed etico ma deve saper conquistare anche gli altri piani autorganizzando il soddisfacimento di sempre più bisogni di beni e servizi. Per fare questo stiamo sperimentando dei rapporti economici fatti di scambi e il meno possibile legati all’euro. Oltremercato ha avviato un laboratorio a livello provinciale che punta a riscoprire le monete sociali con la finalità di tiraci fuori dall’euro in un’ottica mutualistica. Abbiamo delle reti sul territorio che già esistono e che possiamo pensare di tirare fuori dal sistema economico dominante per ricondurle al semplice e diretto incontro tra i bisogni di qualcuno e l’offerta di servizi e prodotti da parte di qualcun altro, in modo multireciproco. Si tratta di chiudere dei piccoli cerchi e almeno provare a fare ragionamenti di questo tipo guardando alle possibilità di un modo di vita che non sia per forza collegato all’economia del debito in cui viviamo oggi.

Per quanto riguarda la realtà di Expo non mi va di entrare in merito. È stato un baraccone mediatico di slogan svuotati di senso a sostegno del modello agroindustriale che combattiamo; ma la vera macchia nera è piuttosto l’Expo dei popoli che ci ha fatto vedere come siano state riassorbite totalmente delle istanze che erano invece nate dalla base. In questo senso dobbiamo fornirci di strumenti adeguati, per non lavorare inutilmente e non regalare le nostre conquiste culturali al potere.

In questo quadro virtuoso di economia alternativa riesce però difficile collocare il modello insostenibile della metropoli moderna. D’altra parte, però, anche il solo fatto di costruire un’economia che seppur circoscritta ha una base resistente è già un passo avanti, è quanto meno un punto su cui appoggiare una leva per tentare una trasformazione radicale della società. Vi siete posti questo problema del rapporto tra campagna e città?

Per l’approvvigionamento anche solo dal punto di vista alimentare della metropoli non abbiamo risposte in questo momento, ma sicuramente è un problema che ci poniamo. Teniamo presente che l’agricoltura industriale, finalizzata al profitto, non solo non è il modo migliore ma è un pessimo modo per produrre cibo, basti pensare al consumo di energia e agli sprechi che genera. Un sistema diverso di produrre e distribuire non è detto che non sia applicabile su larga scala, soprattutto in un territorio come l’Italia dove forse è più attuabile che altrove.

Genuino Clandestino nasce proprio come alleanza tra movimenti contadini e movimenti urbani. Il nostro collettivo, come ognuno dei nodi della rete, nasce tra un gruppo di contadini resistenti e degli attivisti di un centro sociale di città, intorno a dei progetti da una parte legati all’agricoltura e dall’altra all’attività politica sul territorio. Non è una problematica ma il nostro punto di forza, la centralità del rapporto tra campagna e città è stata ben presente fin da subito. Accanto a Genuino Clandestino, c’è una realtà come Ri-Maflow di Milano e il progetto “Fuorimercato” che stanno cercando di mettere in piedi: una piattaforma di logistica per risolvere il problema dell’approvvigionamento di cibo in città. Questo significa che ci si sta provando anche in contesti metropolitani e che anzi questi costituiscono uno stimolo ad organizzarsi per i nodi più periferici.

Se noi pensiamo di voler nutrire il mondo con l’agricoltura contadina bisogna che iniziamo a darci questi strumenti. Rifiutando la delega e il controllo, attraverso l’autodeterminazione dei territori cominciare a riorganizzare strati di società in un’ottica integrale[1] e autogestionaria.

[1] Il concetto di cooperazione integrale è stato sviluppato inizialmente da una parte del movimento cooperativo e autogestionario catalano in questi termini: “una cooperativa integrale è uno strumento per costruire un contro-potere di base autogestito, auto-organizzato e con democrazia diretta. Questo strumento può aiutare a superare l’attuale stato di totale dipendenza dalle strutture dei sistemi e degli stati, attraverso uno scenario di totale libertà e in cui ciascun individuo può svilupparsi con condizioni paritetiche e pari opportunità”. Dal sito <http://cooperativa.cat/it/che-cose-la-cic>.

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