Tutto fumo… niente arrosto.
La controversia sui fumi all’ex cementificio di Sassoferrato
Di Alessandro Pietropaoli
Da Sassoferrato in provincia di Ancona ci arriva una storia di declino industriale e devastazione ambientale che ha molti punti in comune con la storia che abbiamo raccontato nel numero 3, quella dello stabilimento industriale Sacelit di Senigallia. Per giunta, questa vicenda mette in luce la situazione difficile delle aree appenniniche delle Marche, colpite oggi anche dal recente terremoto e da sempre oggetto di sfruttamento e controllo politico da parte dei potentati locali. Tuttavia ci piace anche ricordare che Sassoferrato fu per lungo tempo patria di briganti e repubblicani contro il Papa e poi di anarchici e altri resistenti contro il Re e il fascismo. E domani? Queste montagne ci riservano ancora storie e sorprese.
La vicenda che intendo ripercorrere in questo articolo è quella relativa alla situazione di attuale degrado e abbandono che coinvolge l’area dell’ex cementificio SACIC di Sassoferrato, nell’entroterra sub-appenninico della provincia di Ancona. Una storia, a mio avviso, che assume particolare significato per quanto riguarda la lunga controversia sui fumi di scarico che ha coinvolto la popolazione per più di vent’anni segnando all’epoca una vera e propria frattura culturale. Sono nati cioè in quegli anni temi come l’attenzione alla trasparenza, il rifiuto della monetizzazione della salute, il coinvolgimento di ampi strati della cittadinanza e una nuova concezione dell’ambiente che non separa l’interno dall’esterno della fabbrica. Temi sensibili qui a Sassoferrato che hanno portato poi in tempi più recenti ad opporsi (era il 2009) al progetto di creazione di un termovalorizzatore affidato alla locale filiale della multinazionale Ritrama Spa creando un apposito comitato di tutela ambientale e ai giorni nostri, ad ostacolare la creazione di un impianto mini-eolico da 60 Kwp che l’attuale amministrazione ha deciso di installare sopra la frazione di Montelago nonostante l’opposizione della comunità locale guidata da varie associazioni ambientaliste istituzionali tra cui Italia Nostra e Wwf.
Ma andiamo con ordine e cerchiamo di ripercorrere le fasi e le alterne vicissitudini affrontate dallo stabilimento con una particolare attenzione al tema dell’inquinamento e al rapporto creatosi tra vertici della fabbrica, popolazione e autorità competenti.
La nostra storia inizia nel lontano 1909 con la creazione della società facente capo ai f.lli Stella per lo sfruttamento della cava di calcare in prossimità del fiume Sentino per ricavare cemento, calce e gesso. Le fasi di cottura avvenivano in tre forni verticali mod. Dietzch (i cui camini di scarico sono ancora visibili). In quel periodo la produzione giornaliera è di circa 80 t/g con l’impiego di 60 operai. I primi problemi produttivi, però, non tardano ad arrivare. Già nel ’14, causa la modesta entità del giacimento calcareo, si è costretti ad importare da Scheggia il materiale tramite carri trainati da buoi in assenza della linea ferroviaria. Più tardi, nel 1931, dopo un periodo di crisi dovuto a vari fattori (crisi economica mondiale del ’29, bassa produttività dello stabilimento rispetto a quello di Magione-Perugia di proprietà della stessa ditta) cessa l’attività e viene dichiarato il fallimento.
È significativo notare come in tale periodo la chiusura del cementificio sia tra le cause che trascinano con sé anche il fallimento del maggiore istituto di credito locale: la Banca Popolare di Sassoferrato il cui presidente è Ermogaste Stella, Podestà fascista del Comune e cugino dei f.lli Stella del cementificio. Quando viene scoperto che ha concesso tramite la banca “prestiti allegri” allo stabilimento e mai più rientrati, viene espulso dalla sezione locale del partito fascista e il Comune viene commissariato. Dopo la cessazione della produzione, autorità locali e sindacati cercano di coinvolgere altri attori per ripartire e decidono di affidare in affitto la gestione in più riprese a due diversi cementifici che però, ben prima della scadenza naturale del contratto, si sganciano dall’impresa causa scarsa produttività dello stabilimento e crollo sul mercato del prezzo di vendita del cemento. Alla fine subentra la Ditta Papini e poco dopo la società prende il nome di “Società Anonima Cementi Portland Italia Centrale” (SACIC). Alcuni ammodernamenti portano la produzione a 100 t/g e nel ’53 la ditta diviene società per azioni.
Arriviamo così alla fase che ci interessa maggiormente, che è possibile ricostruire tappa per tappa grazie alla corrispondenza presente nel Fondo Albertino Castellucci presso l’Istituto di Storia di Ancona. Le prime rimostranze iniziano nel 1954 (anno in cui viene messo in funzione il nuovo forno verticale automatico) sia da parte degli abitanti delle zone limitrofe che della dirigenza di un vicino pastificio preoccupata della qualità dell’aria esterna da immettere negli essiccatoi per la pasta. Il sindaco dell’epoca, Albertino Castellucci, causa la dispersione di grosse quantità di pulviscolo nell’atmosfera, aggravata anche dall’ubicazione a fondo valle dello stabilimento, si vede allora costretto a sollecitare il direttore del cementificio a prendere, nel minor tempo possibile, provvedimenti per limitare il fenomeno. Da qui prende il via tutta una serie di botta e risposta tra i protagonisti in campo che durerà decenni.
Per Castellucci, pedigree da democristiano di razza con studi medi dai salesiani, diploma da agrimensore e laurea economica, impegnato nelle Acli, in Coldiretti (fondatore sez. Ancona e Sassoferrato) e in Azione Cattolica, la vicenda è particolarmente delicata essendo al primo mandato da sindaco dopo l’elezione del ’51 (rimarrà in carica quasi ininterrottamente fino al ’75 intrecciando la sua biografia politica alla vicenda del cementificio) ed essendo a capo di una giunta mista Dc-Repubblicani abbastanza rissosa. Riuscirà comunque a districarsi nella situazione in maniera egregia con una tattica attendista che gli permetterà addirittura di rafforzare la propria posizione politica di dominio incontrastato grazie anche alle amicizie influenti nel Vaticano e a Roma (dove nel ’58 inizierà l’avventura da deputato divenendo anche sottosegretario).
Nella risposta al sollecito il cementificio si difende dicendo che il pulviscolo è quello tipico di tutti gli altri stabilimenti analoghi e che al momento non può permettersi, per il costo proibitivo, l’acquisto di apparecchiature filtranti ma che anzi è cosa che il vicino pastificio dovrebbe eseguire essendo il cementificio sorto prima. Passa un anno e mezzo e il sindaco, sempre più in difficoltà (si dimetterà da lì a breve), scrive al prefetto per chiedere un intervento risolutivo. Dopo meno di un anno, Castellucci è di nuovo in sella, stavolta con un’alleanza più stabile con i socialdemocratici. La situazione dei fumi intanto rimane irrisolta. Dal ’58, forte della sua presenza al governo nazionale, inizia a drenare fondi da Roma verso il territorio sentinate in anni di veloce ricostruzione e qui, con una forte politica di sussidiarietà e creazione clientelare, crea un saldo consenso. Si parla di più di un miliardo di lire in opere pubbliche. Sono anni di boom industriale per Sassoferrato che all’epoca soffriva di cronici problemi di emigrazione e disoccupazione (basti pensare che nel decennio 1951-1961 la popolazione ha subito un calo del 35%, Fonte Istat).
Dal ’60 al ’64 entrano così in funzione a Sassoferrato otto nuovi stabilimenti tra cui due calzaturifici e la fabbrica Ariston di Aristide Merloni, altro uomo potente della Democrazia Cristian in grado di piegare ai propri interessi imprenditoriali un intero comprensorio da sempre sotto ricatto lavorativo.
Ma torniamo alla nostra vicenda. Nel novembre 1960 un esposto di 150 famiglie tira in ballo il Ministero della Sanità e il competente Ufficio di Medicina della provincia di Ancona che, a seguito di tempestivo sopralluogo, certifica l’irregolarità della situazione e la noncuranza dell’amministrazione del cementificio nel predisporre idonei filtri. La risposta piccata e arrogante del direttore non tarda ad arrivare. Egli mette in dubbio il metodo di rilevamento delle polveri, afferma che se 150 famiglie hanno firmato l’esposto, almeno 1.000 (le restanti) non lamentano problema alcuno e invia una frecciatina al sindaco consigliandogli di rivedere il futuro sviluppo edilizio cittadino che è troppo vicino alla fabbrica. Nel settembre 1961 partono un secondo esposto e nuovi solleciti. Nel Fondo spunta anche una lettera personale di auguri dell’amministratore unico del cementificio al sindaco che viene ringraziato per la partecipazione ad una cena privata organizzata dall’azienda a fine anno, il tutto con un registro di pacifico accordo e con un tono estremamente conciliatorio. Negli stessi giorni, infatti, si tiene la seduta del consiglio comunale (27/12/1961) in cui sono verbalizzate le seguenti frasi pronunciate dal sindaco: “Ho già spiegato che un’azione violenta di rottura con la società non è opportuna; bisogna fare le cose di comune accordo […] sia ai fini della pubblica salute che del turismo; facendo cioè le cose con la massima discrezione possibile per non destare allarme né qui né fuori di qui. […] Dico io di fare un’azione serrata e forte, ma tra di noi e continuiamo a dire che a Sassoferrato si sta bene e non si muore affatto a causa della polvere della cementeria […]”.
Da questo breve estratto si evince tutta la cautela con cui si muove l’amministrazione comunale che intende tacitare l’eco che il caso potrebbe assumere anche fuori dei confini del territorio. In altre parole, quello che preme al sindaco è la difesa del “buon nome” del territorio e non alzare troppo i toni per non accendere eventuali riflettori su una situazione “ambigua” che potrebbe penalizzare l’“afflusso turistico” (peraltro sempre con numeri molto bassi essendo costituito per lo più dal ritorno estivo degli ex emigrati nelle case d’origine) e creare turbative all’equilibrio sociale azzerando il possibile conflitto che cova sempre dietro l’ipocrita facciata piccolo-borghese di presunta tranquillità provinciale.
Intanto passa il tempo… Se ne avvantaggiano giunta e cementificio a discapito della salute della popolazione. Siamo ormai al 1965. Arrivano (con quattro anni di ritardo!) i rilevamenti del ’61 di un altro istituto di analisi che sembrano certificare valori nella norma. Castellucci è rieletto stavolta addirittura con una giunta monocolore Dc (grazie agli innumerevoli aiuti governativi, alla fase di sviluppo economico e alla politica “distributiva” a ridosso delle scadenze elettorali).
Un altro sopralluogo, stavolta dell’Ente Nazionale Protezione Ambiente certifica la non attendibilità delle precedenti raccolte di campioni perché fatte solo in pochi punti senza interessarsi delle diverse granulometrie a parità di luogo di prelievo e consiglia anche di fare un’indagine sull’incidenza di lesioni polmonari.
Una data importante per la nostra storia è quella del 18 giugno 1966 ovvero il giorno di costituzione, ad opera di circa venti cittadini “illuminati”, del Comitato Aria Pulita. Questa circostanza porta inevitabilmente ad alzare i toni e il cementificio minaccia un’azione legale con una lettera di diffida in cui insinua che l’amministrazione comunale agevoli l’azione del Comitato e inizia, neanche tanto velatamente, ad usare il ricatto lavorativo di chiusura dello stabilimento se vi saranno ulteriori intralci. Il Comitato inizia subito un forte pressing sul sindaco affermando che negli ultimi cinque anni i casi di tumore polmonare nel territorio sono stati una quindicina a differenza dei due o tre del precedente decennio.
Finalmente nell’ottobre ’69 una convenzione viene stipulata tra Ministero, Comune e cementeria cui seguono ammodernamenti e un nuovo impianto di filtraggio. Ma la problematica della costante nube che avvolge la parte bassa della cittadina non si risolve anzi, peggiora perché intanto la società aveva costruito un secondo forno verticale automatico (modello particolarmente inquinante ma produttivo; ora il livello di produzione è pari a 200 t/g con soli 30 addetti). Allora nel ’71 la SACIC costruisce un meno impattante forno rotante orizzontale. Poi nel ’73, a seguito di un altro esposto del Comitato, una nuova perizia rileva emissioni nocive notevoli (fino a tre volte i limiti di legge) e irregolarità nel funzionamento dei filtri. Ormai la situazione, dopo venti anni, arriva ad una svolta: il 31/12/1974 la società decide di cessare la produzione spegnendo i forni e trasformando lo stabilimento in sito di deposito con ancora problema di polvere, però, dovuto alle fasi di carico/scarico, fino all’83 quando avviene la vendita degli stabili. Nel 1988 il fabbricato senza i macchinari è acquistato dall’Officina meccanica Pacetti che vi installa un mini-impianto idroelettrico per produzione di energia ad uso proprio e tuttora la situazione è rimasta invariata.
Diversi progetti di riqualificazione e recupero dell’area sono stati presentati negli anni sulla base della L.R. n. 16 del 23/02/2005 che disciplina tali interventi ma né investitori pubblici né privati finora hanno mostrato interesse alcuno come invece avvenuto in altre parti d’Italia dove la possibilità di attrarre capitali in tal senso è più elevata. E lo scheletro fatiscente del complesso attuale, posizionato in zona semicentrale del rione Borgo, non è certo un buon biglietto da visita per l’attuale amministrazione comunale che, consapevole di un ritardo decennale nello sviluppo turistico della zona, sta tentando in questo secondo mandato del sindaco Pesciarelli una forte campagna di promozione turistica con l’aiuto di una società di marketing appositamente creata. Un approccio, però, che vede la valorizzazione turistica necessaria solo se subordinata alla finalizzazione economica del bene archeologico e che non esita a mostrare ai potenziali forestieri solo la facciata “lustrata” per l’occasione del territorio, glissando su fenomeni di disagio, degrado e criticità amplificatisi negli ultimi anni che vengono artatamente occultati e non esitando a rivolgere accuse di disfattismo a coloro che evidenziano tali aspetti.
Infine due considerazioni finali. La prima riguarda l’opportunismo tipico dei “capitani coraggiosi” dell’industria italiana i quali, fino a che esistono fondi, sussidi, sgravi fiscali, politiche di sostegno pubblico all’impresa privata e in fasi di congiuntura economica favorevole, mantengono la produzione e macinano profitti mentre quando questo flusso di denaro si arresta o insorgono complicazioni che richiedono magari investimenti o ricapitalizzazioni spiccano il volo con estrema solerzia verso lidi più “appetitosi”.
La seconda riguarda il titolo dell’articolo. Sentendo un po’ in giro la popolazione locale e visionando foto d’epoca (in cui Sassoferrato in certi giorni era avvolta da una vera e propria nube nera) sono giunto alla conclusione di come sia stata messa in pericolo la salute di decine e decine di cittadini per mantenere in piedi una fabbrica che fin dagli inizi è risultata obsoleta e che ha sempre generato bassi livelli di occupazione. Tant’è che nessuna delle persone che ho avuto modo di ascoltare la ricorda con rammarico, anzi. Qui invece è ancora molto viva e scottante la chiusura per fallimento del calzaturificio Vainer (fabbrica che a metà anni Settanta produceva 2,6 milioni di scarpe e occupava 1.000 operai tra Sassoferrato, Cagli, Gubbio e San Severino Marche), dove fino al 2008 lavoravano 250 dipendenti e salito alla ribalta delle cronache giudiziarie anche per reati di bancarotta fraudolenta, distruzione di scritture contabili e per il licenziamento selvaggio di 41 dipendenti (di cui una trentina donne) nello stabilimento di Serra Sant’Abbondio che aveva riaperto dopo la chiusura di quello sassoferratese con personale ridotto.
Per saperne di più
Per ripercorrere le fasi storiche, il contesto e la cronologia del cementificio, l’opera da consultare è l’ottima Storia del cementificio di Sassoferrato (1909-75) di Renzo Franciolini, gennaio 2016, dispensa autoprodotta. Utile per la controversia fumi è la corrispondenza tratta dal Fondo Albertino Castellucci, presso l’Istituto Storia di Ancona. Per saperne di più sul licenziamento alla Vainer di Serra Sant’Abbondio e sulla sortita notturna natalizia della proprietà per portare via i macchinari, leggere l’articolo del 20/01/2012 tratto da «Rassegna sindacale».
Per ripercorrere la biografia di uno dei protagonisti, ovvero Castellucci, consultare la voce wikipedia e la pagina <http://www.sassoferratomia.it/castellucci.pdf>.
Fusioni aziendali
Di Alessandro Pietropaoli
(ad Arthur Scargill)
«Puntiamo all’espansione nel mercato
anche se
il problema della sovrapposizione di figure professionali…
Abbiamo pronto un nuovo piano di rilancio
anche se
il costo del lavoro resta ancora troppo alto…
Facciamo della solidità finanziaria
un nostro segno distintivo
anche se
di questi tempi è bene che
tutti si faccia un po’ di sacrifici…
Vogliamo che le relazioni coi sindacati siano serene
e che la nostra sia una fabbrica di lavoratori felici
anche se
per i primi tempi i ritmi produttivi
non potranno subire alcun rallentamento…».
Mio padre,
operaio specializzato ora in mobilità,
come tanti altri suoi colleghi,
legge tutti i giorni il dizionario.
Dice che la vita di un uomo
dipende
dal modo in cui padroneggia le parole.