Sui modi di combattere il dominio tecnologico:
l’anti-industrialismo di Miguel Amorós
Di Luigi [QUI IL PDF]
Tutto sarebbe ordine e armonia, se non ci fosse ancora e sempre l’uomo. L’industria e l’economia, aiutate dalla scienza e dalla tecnica, hanno fatto del loro meglio per soddisfare i capricci stravaganti dei consumatori. Sono loro che, usando ed abusando in modo “irrazionale” di queste istituzioni, hanno messo il pianeta in questo stato. E adesso, ecco che non vogliono più i rifiuti che hanno prodotto!
Bertrand Louart
Miguel Amorós è un teorico e militante rivoluzionario valenzano, già redattore della rivista di critica radicale «Encyclopédie des Nuisances», conosciuto in lingua italiana per diversi suoi saggi pubblicati in particolare dalle edizioni Nautilus di Torino. Proponiamo qui, in prima traduzione italiana, il suo intervento Cos’è e cosa vuole l’anti-industrialismo?, tenuto all’Incontro di difesa del territorio organizzato nel maggio 2014 dalla Libreria associativa Transitant a Palma di Maiorca.
La nostra epoca, l’epoca del capitalismo tecno-industriale, è profondamente differente da tutte quelle che l’hanno preceduta, se non altro per il suo correre testardamente verso la distruzione delle basi stesse della vita sul pianeta. Due secoli di progresso tecnologico hanno infatti ridotto il mondo in cui viviamo in una pattumiera, per cui uomini e donne sono costretti ad adattarsi ai veleni che infestano la terra, l’acqua, l’aria. Nonostante il manto dell’ideologia scientista e del progresso, è un dato di fatto che l’odierna civiltà provochi il disastro ecologico.
La tecnologia, non le sue presunte “derive”, è l’aspetto fondamentale del dominio contemporaneo. Essa nasce per scopi ben precisi, in sostanza accrescere potere e profitti, prendendo una determinata direzione e ignorando le mille altre possibili. D’altra parte non sono certo bisogni e aspettative di uomini e donne a guidare l’innovazione tecnologica, casomai è il contrario: è quest’ultima che crea i primi. La presunta neutralità della scienza non è infatti di questo mondo e se lo sguardo va oltre l’immediata applicazione pratica si deve riconoscere che è illusorio pensare di disporre liberamente della tecnologia e di impiegarla per i propri fini. Non diciamo nulla di nuovo. Lo sosteneva, ad esempio, il lungimirante filosofo tedesco Günther Anders già negli anni Sessanta: “non basta affermare che bisogna utilizzare la tecnica per scopi buoni invece che cattivi, per compiti costruttivi invece che distruttivi. Tale argomento, che si ode fino alla noia sulle bocche di tanti uomini di buona volontà è indiscutibilmente miope. Ciò che oggi dobbiamo chiederci è se disponiamo così liberamente della tecnica. Non ci si può limitare a sostenere questo potere discrezionale. In altre parole, può darsi benissimo che il pericolo che ci minaccia non consista nel cattivo uso della tecnica, ma sia implicito nell’essenza della tecnica in quanto tale”[1].
Testi come quelli di Amorós che qui proponiamo alla lettura invitano ad alzare lo sguardo dagli aspetti più immediati ed esteriori della tecnologia, dagli apparenti vantaggi di questa o quella applicazione, per cercare di comprendere nel più ampio contesto sociale e storico le nefaste ricadute del suo avanzamento. Ogni nuova tecnologia, infatti, non tende a integrarsi nel mondo preesistente, piuttosto fa sì che sia il mondo a doversi adattare ad essa, colonizzando ogni aspetto del vivente. In questo senso, l’introduzione dell’automobile non ha solamente permesso alle persone di spostarsi più velocemente da un posto all’altro – le distanze che l’automobile permette di percorrere, oggi si devono percorrere – ma ha prodotto una società completamente diversa, imponendo tra l’altro nuovi ritmi di lavoro e distruggendo la conformazione e la vivibilità degli agglomerati urbani. E la televisione? E internet?
Lo sviluppo della tecnica, o meglio delle tecniche, è connaturato al nostro stare al mondo, mentre il progresso tecnologico determina il regresso umano, rendendo antiquato l’uomo e le sue facoltà; ogni suo avanzamento è un colpo inferto all’autonomia e alla libertà dei viventi. Per “autonomia” si intende la possibilità per i singoli e le comunità di determinare le proprie condizioni di vita attraverso la propria attività: uno scenario che stiamo irrevocabilmente perdendo mentre la tecnica moderna impone condizioni di vita e si rende, essa sì, autonoma dall’intervento umano. In altre parole, non è più l’uomo a padroneggiare lo strumento ma è la macchina a tenere in pugno l’uomo, mentre il sistema tecno-industriale nel suo complesso mira a modellare un mondo in cui le attività umane non siano più d’intralcio alla circolazione delle merci. Così come nella produzione sono gli ingranaggi a dettare i ritmi alle mani, e non viceversa, anche al di fuori del lavoro possiamo illuderci di controllare l’automobile o il telefonino, mentre siamo del tutto asserviti al loro uso sociale.
Come accennato in apertura, “tecnologia” non è solo il moderno complesso industriale ma anche l’ideologia del progresso che lo accompagna. Un dogma che ha accomunato a lungo borghesia e proletariato, detentori del potere e movimenti rivoluzionari. Oggi è irragionevole pensare di contrastare l’ideologia del progresso appellandosi a una qualche forma di decrescita controllata, che ha lo scopo di tirare le briglie e cercare di governare un sistema andato fuori binario. Un’opposizione ecologista che si mantiene composta e rispettosa delle regole del gioco è quanto di meglio possa chiedere la perpetuazione del sistema di dominio, ben lieto di renderla compartecipe – illuminata – della gestione del disastro. Non sappiamo quindi che farcene delle litanie delle associazioni ecologiste, degli esperti, perfino degli industriali e degli uomini di Stato sulla necessità di uno sviluppo sostenibile per “salvare il pianeta”, che si guardano sempre bene dal mettere in discussione l’ideologia del progresso e dal rifiutare questo sistema tecno-industriale e la sua mortifera quotidianità. Nessuno nega che le battaglie quotidiane siano battaglie per obiettivi parziali, ma perdono il loro senso se non si è capaci di inserirle in un immaginario rivoluzionario radicalmente altro: “la società industriale – ha scritto Bertrand Louart – si è resa in gran parte indispensabile e i valori che la fondano, con le sue merci, hanno colonizzato gli spiriti al punto che più nessuno osa immaginare qualcos’altro che un diverso modo di gestione del macchinario, ma mai la sua rimessa in discussione radicale”[2].
L’anticapitalismo, quindi, non può prescindere da una prospettiva anti-industriale, di sabotaggio dello sviluppo, innanzitutto per preservare i territori in cui viviamo. Il cuore del discorso non è tanto lo sbarazzarsi delle cianfrusaglie tecnologiche prodotte nel secolo della plastica e dell’elettricità, quanto l’eliminazione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla natura, che fa tutt’uno con lo sbarazzarsi di cui sopra. Ciò che serve, in fin dei conti, è quella necessaria lucidità critica che sia di indirizzo all’agire; un cambiamento radicale nei modi di pensare che guidi la messa in pratica di modelli alternativi, in conflitto e antagonisti alla civiltà che conosciamo. “Il pensiero anti-industriale – scrive Amorós – non rappresenta una nuova moda, una critica puramente negativa del pensiero scientifico e delle ideologie progressiste, né un volgare primitivismo che propone di tornare a un qualche momento della Storia. Non è neanche una semplice denuncia dell’addomesticamento del proletariato e del dispotismo del capitale. Ancor meno è un qualcosa di tanto mistificatore quanto una teoria unitaria della società, riserva di caccia dell’ultima delle avanguardie o dell’ultimo dei movimenti. Va al là di tutto questo. È lo stadio più avanzato della coscienza sociale e storica. È una determinata forma di coscienza, dalla cui generalizzazione dipende la salvezza dell’epoca”[3].
Miguel Amorós, Cos’è e cosa vuole l’anti-industrialismo?
La corrente anti-industriale emerge, da un lato, dal bilancio critico del periodo che si chiude con lo scacco del vecchio movimento operaio autonomo e con la ristrutturazione globale del capitalismo; nasce dunque tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo passato. Dall’altro lato, sorge dal nascente tentativo di ritorno alla terra di questa epoca e dalle rivolte popolari contro la presenza permanente di fabbriche inquinanti nei centri urbani e contro la costruzione di centrali nucleari, zone urbanizzate, autostrade e dighe. È al tempo stesso un’analisi teorica delle nuove condizioni sociali che tiene conto del contributo dell’ecologismo e una lotta contro le conseguenze dello sviluppo capitalista, anche se non sempre le due cose stanno insieme.
Possiamo definirlo come una teoria critica e una pratica antagonista nate dai conflitti provocati dallo sviluppo della fase ultima del regime capitalista, che corrisponde alla fusione dell’economia e della politica, del Capitale e dello Stato, dell’industria e della vita. A causa della sua novità, e anche per l’estensione della sottomissione e della rassegnazione tra le masse declassate, riflessione e lotta non sempre vanno mano nella mano; l’una postula obiettivi che l’altra non sempre vuole assumere; il pensiero anti-industrialista lotta per una strategia globale di conflitto, mentre la sola lotta si riduce a tatticismo, cosa che va a solo beneficio del dominio e dei suoi sostenitori. Le forze mobilitate non sono quasi mai coscienti del loro compito storico, mentre la lucidità della critica non arriva sempre a rischiarare le mobilitazioni.
Il mercato globale trasforma continuamente la società conformemente alle sue necessità e ai suoi desideri. Il dominio formale dell’economia nella vecchia società di classe si trasforma nel dominio reale e totale nella moderna società tecnologica di massa. I lavoratori oggi massificati sono prima di tutto consumatori. La principale attività economica non è industriale, ma amministrativa e logistica (terziaria). La principale forza produttiva non è il lavoro, ma la tecnologia. In compenso i salariati sono la principale forza di consumo. La tecnologia, la burocrazia e il consumo sono i tre pilasti dello sviluppo attuale. Il mondo della merce ha smesso di essere autogestibile. È impossibile umanizzarlo: bisogna prima smantellarlo.
Tutte le relazioni degli esseri umani tra loro e con la natura hanno perso il loro carattere diretto e si trovano mediate da cose, o meglio da immagini associate a cose. Una struttura separata, lo Stato, controlla e regola questa mediazione reificata. Così, dunque, lo spazio sociale e la vita che lo abita sono modellati in accordo con le leggi di queste cose (le merci, la tecnologia), quelle della circolazione e quelle della sicurezza, originando tutto un insieme di divisioni sociali: tra cittadini e rurali, dirigenti e diretti, ricchi e poveri, integrati ed esclusi, veloci e lenti, connessi e sconnessi, etc. Il territorio, una volta sgomberato dagli agricoltori, si converte in una nuova fonte di risorse (una nuova fonte di capitali, un decoro e un supporto delle macroinfrastrutture, un elemento strategico della circolazione). Questa frammentazione spaziale e questa disaggregazione sociale appaiono oggi sotto forma di una crisi che presenta diversi aspetti, tutti in relazione tra loro: demografici, politici, economici, culturali, ecologici, territoriali, sociali… Il capitalismo ha superato i suoi limiti strutturali, o detto in altra maniera, ha toccato il tetto.
La multiple crisi del nuovo capitalismo sono il risultato di due tipi di contraddizioni: quelle interne, che sono causa di forti ineguaglianze sociali, e quelle esterne, responsabili dell’inquinamento, del cambiamento climatico, dell’esaurimento delle risorse e della distruzione del territorio. Le prime non escono dall’ambito capitalista dove restano dissimulate come problemi del lavoro, affari di credito e deficit parlamentari. Le lotte sindacali e politiche non prospettano mai di uscire dal quadro che incornicia l’ordine stabilito; ancora meno si oppongono alla sua logica. Le contraddizioni principali sono quindi prodotte o dal contrasto tra l’esaurimento delle risorse planetarie e la domanda infinita che esige lo sviluppo, o dall’urto tra i limiti che impongono la devastazione e la distruzione illimitata che sono implicate nella continua crescita. Queste contraddizioni rivelano la natura terrorista dell’economia di mercato e di Stato nei confronti dell’ambiente e della vita della gente. L’autodifesa di fronte al terrorismo della merce e dello Stato si manifesta tanto sotto forma di lotte urbane che rifiutano l’industrializzazione del vivere – o come anti-industrialismo – che come difesa del territorio contro l’industrializzazione dello spazio. I rappresentanti del dominio, se non possono integrare queste lotte sotto gli abiti di un’opposizione “verde”, rispettosa delle loro regole del gioco, le presentano come un problema minoritario di ordine pubblico, per poterle così reprimere e schiacciare.
In un momento in cui la questione sociale tende a presentarsi come questione territoriale, solo la prospettiva anti-industriale è capace di considerarla correttamente. Di fatto, la critica allo sviluppo è la critica sociale per come esiste oggi; nessun’altra è veramente anticapitalista perché nessuna mette in causa la crescita o il progresso, i vecchi dogmi che la borghesia ha trasmesso al proletariato. D’altra parte, le lotte di difesa per la salvaguardia del territorio, sabotando lo sviluppo, fanno sì che l’ordine della classe dominante vacilli: nella misura in cui riusciranno a riformare un soggetto collettivo anticapitalista, queste lotte non saranno altro che la moderna lotta di classe.
La coscienza sociale anticapitalista emerge dall’unità della critica e della lotta, vale a dire della teoria e della pratica. La critica separata dalla lotta diviene ideologia (falsa coscienza); la lotta separata dalla critica diviene nichilismo e riformismo (falsa opposizione). L’ideologia difende spesso un ritorno impossibile al passato, fornendo un eccellente alibi all’inattività (o all’attività virtuale, che è la stessa cosa), anche se la sua forma più abituale si ritrova nella sfera economica del cooperativismo o nella sfera politica del cittadinismo (versione europea del populismo). La vera funzione della prassi ideologica è la gestione del disastro. Tanto l’ideologia quanto il riformismo separano l’economia dalla politica per proporre soluzioni all’interno del sistema dominante, che sia in un campo o nell’altro. E poiché i cambiamenti derivano dall’applicazione di formule economiche, giuridiche o politiche, entrambi negano l’azione, che sostituiscono con succedanei teatrali e simbolici. Rifuggono un confronto reale, dal momento che vogliono a tutti i costi rendere compatibili le loro pratiche con il dominio, o almeno approfittare delle sue lacune e delle sue crepe per sopravvivere e coesistere. Vogliono gestire degli spazi abbandonati e amministrare la catastrofe, invece di sopprimerla.
L’unione appena citata tra la critica e la lotta procurano all’anti-industrialismo un vantaggio che non possiede nessuna ideologia: sapere tutto ciò che vuole e conoscere gli strumenti necessari per raggiungere il suo scopo. Essa può presentare in maniera realista e credibile i tratti principali di un modello alternativo di società, società che diventerà palpabile appena sarà superato il livello tattico dei coordinamenti, delle associazioni e delle assemblee, per raggiungere il livello strategico delle comunità combattenti. Cioè appena la frattura sociale potrà esprimersi nel senso di “noi” contro “loro”. Chi sta in basso contro chi sta sopra.
Le crisi provocate dalla fuga in avanti del capitalismo non fanno nient’altro che affermare, per contro, la pertinenza del messaggio anti-industriale. I prodotti dell’attività umana – la merce, la scienza, la tecnologia, lo Stato, gli agglomerati urbani – si sono complicati rendendosi indipendenti dalla società e ergendosi contro di lei. L’umanità è stata schiavizzata dalle sue stesse creazioni incontrollate. In particolare, la distruzione del territorio dovuta a un’urbanizzazione cancerosa si rivela oggi come la distruzione della società stessa e degli individui che la compongono. Lo sviluppo, come il dio Giano, ha due facce: ora, le conseguenze iniziali della crisi energetica e del cambiamento climatico illustrate dall’estrema dipendenza e ignoranza della popolazione urbana, ci mostrano la seconda faccia, nascosta. La stagnazione della produzione di gas e petrolio annuncia un futuro in cui il prezzo dell’energia sarà sempre più alto, il che rincarerà il prezzo dei trasporti, provocherà crisi alimentari (accentuate ancor più dal riscaldamento globale) e causerà crolli produttivi. Nel medio termine, le metropoli saranno totalmente invivibili e i loro abitanti si troveranno nella situazione di scegliere tra ricostruire il loro mondo in modo diverso o scomparire.
L’anti-industrialismo vuole che il decadimento inevitabile della civiltà capitalista porti ad un periodo di smantellamento di industrie e infrastrutture, di ruralizzazione e decentramento, o per dirla in altro modo, che avvii una transizione verso una società giusta, egualitaria, equilibrata e libera e non verso un caos sociale di dittature e guerre. A tal fine, l’anti-industrialismo rende disponibili sufficienti armi teoriche e pratiche che possono sfruttare i nuovi gruppi e le comunità ribelli, semi di una civiltà diversa, liberata dal patriarcato, dall’industria, dal capitale e dallo Stato.
[1] Günther Anders, L’uomo è antiquato, v. 2: Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 113.
[2] Bertrand Louart, Il nemico è l’uomo, Torino, Quattrocentoquindici, 1999, p. 71-72.
[3] Miguel Amorós, Noi, gli anti-industriali, «Nunatak», n. 19, estate 2000, p. 46 e «XXmila leghe sotto i mari» (catalogo Nautilus), n. 10, 2011, p. 6.