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Bellavita selvaggia. Potere ed economia nelle società primitive (#3)

Bellavita selvaggia. Potere ed economia nelle società primitive
Presentazione di Andrea Staid

Andrea Staid è docente di antropologia culturale, fa parte del collettivo redazionale delle edizioni Elèuthera ed è autore di diverse ricerche e pubblicazioni di storia ed etnografia, in particolare di etnografia dei migranti. Pubblichiamo la trascrizione della presentazione del suo libro “I senza Stato. Potere, economia e debito nelle società primitive” (Bèbert, 2015) tenuta dall’autore presso l’Archivio storico della FAI di Imola il 7 novembre 2015, compresa parte della discussione che ne è seguita. Questo testo ci porta a riflettere su come tutte le culture e le organizzazioni sociali siano relative e, soprattutto, su come lo Stato e l’economia di profitto non abbiano sempre caratterizzato la storia dell’uomo. Ci piace come Andrea parli di tutto ciò con parole chiare, semplici, ben documentate sulla scorta degli studi antropologici ma senza necessità di ricorrere a linguaggi specialistici. E come l’ottica da cui si pone non sia la ricostruzione di una mitica e ideale società primitiva, ma la possibilità di attualizzare nella società contemporanea gli spunti più interessanti che i racconti etnografici hanno disvelato sulla gestione del potere, l’economia e la vita comunitaria.

Tdzao, monti Sapa, Vietnam, 2012. Foto di Andrea Staid
Tdzao, monti Sapa, Vietnam, 2012. Foto di Andrea Staid

 

Dagli Inuit ai No Tav

Vi ringrazio per avermi invitato a discutere con voi questo libro. Il mio principale ambito di ricerca riguarda il mondo dei migranti, mentre questa che presento oggi è una riflessione più filosofico-antropologica. Io non sono stato negli anni sessanta tra gli indios Guaranì, gli Inuit eschimesi o gli Irochesi in Nord America, però ho studiato queste cose e ho anche avuto occasione di insegnarle in ambito universitario. E così mi è nata la voglia di lavorare a questo libricino, volutamente breve, sfrondandolo dell’apparato accademico di lunghe note e citazioni per andare invece a cogliere l’essenziale. Vuol essere una specie di “antipasto” che vada a stimolare l’interesse attorno a queste tematiche; chi ne fosse incuriosito potrà poi andare ad affrontare libri “veri” come quelli di Pierre Clastres, Marshall Sahlins, David Graeber o altri antropologi.

Essendo io una persona da sempre attenta alle critiche e ai conflitti contro gli Stati nazione, mi interessava riflettere su quella che è stata l’esperienza delle società primitive senza Stato. Uso appositamente il plurale perché le società primitive sono tante e differenti e certamente non tutte avevano le caratteristiche che descriverò oggi. Voglio inoltre dirvi subito che io non sono un “primitivista” e questo non è un libro dove si inneggia al ritorno ad un’epoca d’oro, è piuttosto il tentativo di indagare su un archivio umano di esperienze reali, per poterne cogliere alcuni spunti attualizzabili nel mondo contemporaneo.

L’aspetto che principalmente mi interessa è demistificare l’idea che da sempre l’uomo abbia vissuto con lo Stato. Fare una critica allo Stato qui, in una sede anarchica, è una cosa abbastanza facile, ma spesso mi capita di presentare questo libro in situazioni diverse e di solito cito quanto dice Harold Barclay, un anziano antropologo libertario, che suscita sempre un attimo di scalpore: oggi ci sono all’incirca 196 Stati ufficialmente indipendenti che ricoprono l’intero pianeta, 158 di questi, cioè la gran parte, sono emersi dal dominio coloniale, quindi sono recenti e sono stati imposti con la forza. In altre parole: fino all’altro ieri non vivevamo in società statali. Ciò non significa che prima il mondo fosse perfetto, ma ci serve per smontare dal punto di vista antropologico l’assunto che vivere con uno Stato sia una cosa normale. Invece non è così, si tratta di un processo culturale e perciò relativo. Altri aspetti su cui mi soffermo sono quelli del potere e dell’economia. Anche il potere, inteso come dominio, sembra quasi che sia un dato naturale ma in realtà non è sempre stato così, non è un fatto naturale vivere in un mondo dove vige lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Molto importante è inoltre l’aspetto economico, perché dal mio punto vista l’istituzione degli Stati nazione e del potere coercitivo nasce proprio grazie alla creazione del surplus e di una concezione del lavoro legata al salario invece che alla comunità.

Nella parte introduttiva di questo libro ho cercato di legare l’interesse dell’antropologo sulle società primitive con l’oggi, andando a vedere quei movimenti a-statali che secondo me rappresentano esperienze interessanti nella società attuale. In primo luogo faccio riferimento al movimento No Tav. Lo cito non tanto per la lotta conflittuale contro il treno ad alta velocità (una causa che io sposo in pieno), quanto perché questo movimento ha rimesso in questione la democrazia parlamentare, la delega politica, quella che nel libro chiamo la “tirannia del numero”, cioè il fatto che una minoranza di italiani votino delle persone che vengono delegate a Roma e che deliberano su territori a chilometri di distanza, dove vive una comunità che invece non può decidere sulle sorti del proprio territorio. Altro esempio è quello del movimento siciliano No Muos, cioè delle lotte di vari gruppi contro il militarismo sovranazionale che ha deciso di installare in un determinato territorio delle antenne che molto probabilmente produrranno gravi danni, anche in termini di salute, per le comunità che vivono lì. Queste persone rifiutano di accettare tutto ciò, creano conflitto ed è interessante andare a vedere come nei momenti di lotta queste comunità comincino a produrre qualcosa di differente rispetto all’organizzazione sociale del potere che conosciamo.

Un ulteriore esempio che mi serve per spiegare perché ritengo utile guardare le esperienze delle società primitive senza Stato è quello del Rojava in Kurdistan. Abbiamo assistito a una vera e propria metamorfosi della lotta del popolo kurdo che fino alla fine degli anni novanta lottava per la creazione di uno stato nazionale kurdo, mentre oggi oltre ad alimentare la resistenza contro Daesh (lo Stato islamico) lotta per la liberazione ma soprattutto per creare il “confederalismo democratico” cioè delle zone autonome a-statali di democrazia diretta. Il senso di questa democrazia diretta, come lo ha analizzato anche David Graeber, si sovrappone con il concetto che io ho di anarchia, cioè con la gestione diretta della società da parte di chi abita un determinato territorio, di chi vive quotidianamente la comunità.

Tdzao, monti apa, Vietnam, 2012. Foto di Andrea Staid
Tdzao, monti apa, Vietnam, 2012. Foto di Andrea Staid

 

Il capo amerindiano

Per quanto riguarda il “potere”, attraverso gli studi antropologici del Novecento analizzo la sua organizzazione nelle società amerindie. Per amerindiani o amerindi intendo le popolazioni autoctone delle Americhe, che possiamo considerare suddivise in due grandi gruppi: gli indiani nell’America settentrionale e gli indios in Messico e America centrale e meridionale.

La figura del capo amerindiano è in realtà la cosa più lontana possibile da quella che è la nostra concezione di “capo”. Il capo amerindiano è svuotato completamente della funzione comando-obbedienza. È piuttosto il paciere del gruppo, colui che ha il dovere e il diritto della parola, ma non può impartire ordini a nessuno. Una caratteristica del capo è di essere perennemente indebitato con la comunità, il che è esattamente il contrario di quello che succede oggi, visto che oggi siamo tutti indebitati con i “capi”, con le gerarchie economiche che ci comandano. Nelle società primitive era il contrario, come spiega in queste righe Pierre Clastres: “l’indebitamento del capo garantisce che rimanga esterno al potere, che non ne diventi l’organo separato. Prigioniero del suo desiderio di prestigio, il capo selvaggio accetta di sottomettersi al potere della società pagando il debito che costituisce ogni esercizio di potere. Intrappolando il capo nel suo desiderio, la tribù si assicura contro il rischio mortale di vedere il potere politico staccarsi e ritorcersi contro di essa: la società primitiva è una società contro lo Stato”[1].

Clastres in sostanza sostiene che queste non sono società senza Stato, ma contro lo Stato. Hanno cioè compreso il pericolo che può derivare dall’accentramento di potere nelle mani di pochi e fanno di tutto per delimitarlo. Come lo fanno? Gestendo il potere. Su quest’aspetto hanno scritto in molti, potremmo citare nomi illustri come Foucault o Derrida, ma a me piace citare persone che fanno parte del mondo libertario, oltre che personalmente della mia vita, come Amedeo Bertolo o Eduardo Colombo, attivisti libertari che hanno scritto passaggi fondamentali sul potere e che hanno capito come la funzione del potere tra esseri umani sia ineliminabile, nel senso che si può anche eliminare il potere-dominio ma non il potere relazionale. L’importante è distribuirlo a tutti. La distribuzione del potere determina un alto grado di uguaglianza in queste società e soprattutto un alto grado di libertà.

Lavoratori delle comunità indigene, risaie Vang Vieng, Laos, 2011. Foto di Andrea Staid
Lavoratori delle comunità indigene, risaie Vang Vieng, Laos, 2011. Foto di Andrea Staid

 

Quei selvaggi lavoravano tre ore al giorno…

Il discorso sul potere si rispecchia nel discorso relativo al lavoro. Credo che nelle nostre vite il potere coercitivo, cioè il potere comando-obbedienza, lo incontriamo facilmente quando andiamo a lavorare. Lì devi obbedire, perché ti viene dato un salario. Nelle società primitive di cui vi sto parlando le cose andavano diversamente. Non che fossero società senza economia, erano società economiche ma che sviluppavano un’economia senza profitto, cioè senza surplus. Spesso siamo portati a pensare, grazie a illustri economisti come Adam Smith i cui libri si sono imposti nelle scuole, che l’homo œconomicus sia sempre esistito. Questa è una cosa falsa e per fortuna non sono io a dirlo, ma tantissimi antropologi ed economisti del Novecento che si sono occupati di queste tematiche e hanno concluso che per la maggior parte della sua storia l’umanità non ha vissuto in un’economia di profitto. Se potessimo mettere la storia umana lungo una retta di mille metri vedremmo che soltanto gli ultimi centocinquanta sono popolati dall’economia del profitto, nella restante parte, in linea di massima, le comunità umane hanno sviluppato un’economia del dono.

L’economia del dono però non è una cosa semplice. Marcel Mauss negli anni venti del Novecento ha scritto un trattato molto interessante, in cui spiega come l’economia del dono regoli le relazioni e gli scambi fra gli esseri umani. Ciò significa che l’economia del dono è una vera e propria economia di scambio. Non ci riferiamo al “dono” come banalmente potremmo intenderlo oggi, per Natale o per il compleanno, ma il dono in queste società regola le relazioni, per cui io ti do una cosa adesso e so che tu mi darai qualcos’altro un domani. È un meccanismo che si basa sulla fiducia, che purtroppo oggi è difficile concepire perché abbiamo decostruito la solidarietà tra esseri umani. D’altra parte perfino nella società contemporanea possiamo rintracciare situazioni di economia del dono, penso agli spazi libertari e autogestiti dove non c’è scambio monetario, ma anche a situazioni più complesse come ad esempio la “banca del tempo” che è una trovata apprezzabile e in alcuni contesti soprattutto in periodi di crisi comincia a funzionare. La banca del tempo è di fatto economia del dono ma chiaramente, se la vediamo funzionare in paesi di montagna o di campagna, al di fuori di piccole realtà la cosa è più difficile.

A questo punto è necessario demistificare anche un’altra lettura che spesso viene riproposta, ovvero il presunto passaggio dall’epoca mitica del baratto alla moneta. In realtà l’epoca del baratto non è mai esistita. C’era invece il dono che è una cosa ben differente perché il dono, se l’individuo si riconosce nella comunità, funziona, mentre il baratto semplicemente non funziona. O meglio, può anche funzionare, ma giusto per divertimento. Se io produco il pane e tu le scarpe, tu il pane lo vuoi tutti i giorni e a me le scarpe durano due anni, come facciamo a barattare? Non è così funzionale a livello economico. Il dono invece lo è, il dono è funzionale perché quando io avrò bisogno delle scarpe so che tu me le darai. Ma per avere questa economia basata sul dono ci deve essere un riconoscimento dell’individuo nella comunità e della comunità nell’individuo.

Tra gli Inuit, una popolazione dell’Artico, il concetto di dono è addirittura più avanzato rispetto alla modalità che abbiamo descritto del dare, ricevere, restituire. Peter Freuchen, un osservatore occidentale, racconta di una battuta di caccia a cui aveva partecipato: lui non era riuscito a catturare nessuna preda, mentre al cacciatore locale era andata meglio. Una volta tornati al campo anche lui ha ricevuto una parte di cibo e per questo ha ringraziato. Al che gli è stato fatto seccamente notare che non avrebbe dovuto ringraziare: “Inuit” significa “umanità” e umanità significa condivisione, permettere come minimo che tutti possano sopravvivere in un territorio. Addirittura in molti racconti etnografici si legge che il miglior cacciatore era quello che mangiava meno di tutti, perché essere il migliore voleva dire dare di più agli altri, far sì che la comunità si accorgesse che c’era tanto da condividere.

Un altro aspetto interessante viene descritto tra i primi da Marshall Sahlins in un libro molto bello, Economia dell’età della pietra. Sahlins era un marxista, partiva con idee ben chiare sul mondo del lavoro, ma racconta di come andando a vedere negli anni settanta questi popoli ritenuti sottosviluppati e rimasti fermi nella storia si sia reso conto che il loro metodo di lavoro se lo sarebbero sognato i moderni operai sindacalizzati. Mentre quest’ultimi lottavano per le otto ore, quei selvaggi lavoravano tre o quattro ore al giorno. E non è vero che non avessero da mangiare o che vivessero in un’economia di sussistenza. Al contrario, erano economie dell’abbondanza che venivano mantenute volutamente sottoproduttive, questo per non creare quel surplus che avrebbe portato a divergenze interne alla comunità. È infatti attraverso il surplus che viene fuori il dominio, perché nel momento in cui si concentra nelle mani di qualcuno, il rischio è che venga fatto valere per creare sperequazione e diseguaglianza rispetto agli altri.

A questo proposito vi leggo un brevissimo brano sui Kapauko della Nuova Guinea, tratto proprio dal libro di Sahlins. Si tratta di un racconto etnografico degli anni settanta del Novecento, quindi di una situazione recentissima nella storia dell’umanità, seppur difficile da attualizzare: “avendo i Kapauko una concezione equilibrata della vita, pensano di dover lavorare soltanto a giorni alterni. Una giornata di lavoro è seguita da una di riposo allo scopo di riacquistare la forza e la salute perdute. Questo monotono alternarsi di lavoro e svago è reso più piacevole dall’inserimento nel loro calendario di periodi di vacanze più lunghi, trascorsi danzando, facendo visite, pescando o cacciando. Di conseguenza, generalmente si notano soltanto alcune persone avviarsi verso gli orti, le altre si prendono il loro giorno di riposo”[2]. Vediamo come ci sia una concezione del lavoro completamente diversa dalla nostra. Quando gli antropologi parlavano con questi indigeni facevano addirittura fatica a far loro capire la parola “lavoro”, visto che in quelle società il lavoro era semplicemente una parte della giornata, non era un tempo separato impiegato con la finalità di un salario.

Durbar square, Kathmandu, Nepal, 2015 post-terremoto. Foto di Andrea Staid
Durbar square, Kathmandu, Nepal, 2015 post-terremoto. Foto di Andrea Staid

 

Il debito

Dopo potere ed economia, l’ultimo capitolo del libro lo dedico alla questione del “debito”. Anche questo concetto, come ho già accennato prima parlando del comportamento del capo, era completamente diverso nelle società primitive rispetto ad oggi. Il fatto che uno solo, un capo ma privo di potere coercitivo, fosse continuamente indebitato con la comunità e che quindi fosse quello che lavorava di più e doveva sempre donare agli altri, garantiva la libertà degli eguali nelle società primitive. Quando invece hanno cominciato a stratificarsi le società statuali e l’economia del profitto basata sul surplus, il concetto di debito si è completamente ribaltato. Oggi tutti noi si può dire che siamo indebitati con un’oligarchia che ha i soldi e il potere coercitivo.

Così ce lo spiega Clastres: “nessuna divisione in una minoranza di dominanti (il capo e i suoi clienti) che comanderebbe a una maggioranza di dominati (il resto della comunità) che ubbidirebbe. Le società melanesiane ci offrono piuttosto lo spettacolo opposto. Per quanto si possa parlare di divisione, ci si accorge in effetti che, se divisione c’è, è solamente quella che separa una minoranza di lavoratori ricchi da una maggioranza di fannulloni poveri: ma, e qui si toccano i fondamenti stessi delle società primitive, i ricchi sono tali solo grazie al loro lavoro, i cui prodotti sono consumati dalla massa oziosa dei poveri. In altri termini, la società nel suo insieme sfrutta il lavoro della minoranza che circonda il big-man”[3]. In altre parole i capi, per essere tali, devono continuamente donare a quelli che non fanno niente. Ma quelli che non fanno niente non andranno la sera davanti al fuoco a raccontare le tradizioni della comunità. Noi siamo abituati a situazioni completamente diverse, anche se devo dire che io personalmente ho la fortuna di trovarmi a lavorare in una cooperativa libertaria dove il capo è effettivamente un capo amerindiano: è quello che lavora più di tutti, che non percepisce salario e che non ci pensa nemmeno a dare ordini sul lavoro, ma ha la sua autorevolezza.

Durbar square, Kathmandu, Nepal, 2015 post-terremoto. Foto di Andrea Staid
Durbar square, Kathmandu, Nepal, 2015 post-terremoto. Foto di Andrea Staid

 

Primitivo attuale

In conclusione, possiamo dire che questo libro presenta il punto di vista di un antropologo libertario che cerca di interpretare le esperienze delle società primitive e di ricodificarle nel contemporaneo. A me piacerebbe dar ragione ai primitivisti, costruire da domani un mondo dove si viva di nuovo di caccia e raccolta e dove siamo tutti liberi ed eguali. Ma, a parte il fatto che non tutte le società primitive erano perfette e credo che dei passi avanti l’umanità li abbia fatti, ritengo più stimolante attingere a quanto di interessante si trova in queste società per ricodificarlo nel tempo presente e cercare di mutare subito la nostra vita quotidiana. Ad esempio cercare di riprodurre negli spazi che frequentiamo la concezione del potere distribuito, non gerarchico. Oppure cominciare a pensare alle possibilità di vivere con un’economia di condivisione e dono. Chiaramente queste modalità di relazione sono più fattibili in piccoli centri, in piccole comunità, e d’altra parte io non voglio fare il politologo e dare risposte sui macrosistemi. Si può però sperimentare, perché siamo noi che dovremmo decidere come vivere, quali relazioni mettere in pratica nella nostra quotidianità. Anche se, va detto, la critica che fanno molti libertari all’organizzazione di queste società primitive, e che ritengo sensata, riguarda la forte pressione comunitaria sulle scelte individuali: la soggettività individuale, che per me rimane fondamentale, rischia infatti di venire compressa dalla comunità.

Un’ultima cosa che voglio dirvi su questo libro riguarda le illustrazioni. Sono disegni di Giulia Pellegrini. Con lei ho discusso molto su queste tematiche e abbiamo insieme cercato di ragionare sul modo di affrontarle artisticamente; le illustrazioni che trovate non sono quindi solo un contorno al testo, ma parte integrante del libro.

Durbar square, Kathmandu, Nepal, 2015 post-terremoto. Foto di Andrea Staid
Durbar square, Kathmandu, Nepal, 2015 post-terremoto. Foto di Andrea Staid

 

Qual è la collocazione spaziale e temporale di queste società primitive di cui ci hai parlato? A che luoghi e a quali epoche storiche fai riferimento? Esistono ancora oggi dei popoli indigeni che vivono con questo tipo di organizzazione sociale ed economica?

Prima di tutto spiego cosa intendo per “società primitive”, termine che a me non piace perché accomuna diverse singolarità tra loro differenti. Ci sono infatti i Guaranì, gli Inuit, i Kapauko e così via. Ma, generalizzando, possiamo intendere per primitive quelle società che presentano un livello minimo di stratificazione sociale, che in genere vivono di caccia, raccolta o praticano un’agricoltura limitata e, per usare parole di Clastres, nelle quali il corpo politico non è separato dal corpo sociale. Un grave errore sarebbe di ritenerle società immutabili nella storia. Si sono invece mosse, sono mutate dentro il flusso della storia e quindi non c’è un periodo fisso in cui collocarle; gli esempi che vi ho portato sono racconti etnografici degli anni sessanta e settanta del Novecento, ma quelle società esistevano da tempo immemorabile. Ovviamente sono anche diverse a seconda dei luoghi in cui si sviluppano.

Ancora oggi in Polinesia ci sono varie comunità che vivono su modelli simili a quelli di cui abbiamo parlato. Adriano Favole in La bussola dell’antropologo riporta etnografie da lui fatte in quelle zone tra il 2008 e il 2013 e racconta che ad esempio la maggior parte di queste comunità non vende i frutti della terra, farlo sarebbe un insulto al loro modo di vita, perché la terra è di tutti. Nella seconda metà del Novecento, quando in molte parti del mondo si sono sviluppate le lotte di liberazione dal colonialismo, in Polinesia gli antropologi trovavano comunità che, forse ingenuamente, sostenevano di non riconoscersi in questa necessità di liberazione nazionale visto che il mare è di tutti, la terrà è di tutti. Facevano piuttosto un altro tipo di lotta, che era una lotta di resistenza, di diserzione dai comandi dei colonialisti per continuare a vivere come avevano sempre vissuto. Questo ha prodotto una cosa interessante, cioè che in Polinesia ci sono ancora migliaia di persone che vivono con un’economia del dono e della condivisione, mentre se guardiamo a cosa è successo in Africa vediamo che la lotta anticolonialista ha finito per produrre la distruzione totale delle economie preesistenti e nuovi Stati nazione che hanno determinato condizioni ancora peggiori di quelle degli Stati nazione europei. Con questo non voglio dire che una strada sia stata migliore o peggiore dell’altra, non è mio interesse mettermi a giudicare su questo tipo di scelte.

Quelle che ho visto con i miei occhi sono le popolazioni Hmong, Tà Ôi, Dao, Giay, Tay, che ho conosciuto dal 2010 fino alla scorsa estate nei territori che noi chiamiamo Vietnam, Thailandia, Laos, Cina, ma loro in realtà non si riconoscono in nessuno di questi Stati, parlano una propria lingua e hanno una propria cultura. Sono comunità schiacciate dall’avanzata continua del capitalismo (anche se in Cina, Laos e Vietnam ci sarebbe il comunismo). Ora i regimi hanno quantomeno smesso di massacrarle ma i territori in cui vivono sono depredati e stanno diventando terreno per il turismo indigenista, che è una cosa terribile: arrivi a Bangkok e le agenzie turistiche ti propongono di fare il giro per andare a visitare gli indigeni. Una specie di zoo degli umani!

Vi consiglio anche di leggere l’antropologo James Scott. Al contrario di quanto ho fatto io che mi sono avvicinato a questi studi da attivista anarchico, lui non era un libertario ma capisce di esserlo proprio attraverso l’etnografia. Dopo trent’anni di studi etnografici in Asia scrive L’arte di non essere governati, Dominio e arte della resistenza ed Elogio dell’anarchismo. Secondo lui nel Sud-Est asiatico la maggior parte della popolazione, quindi non solo le piccole comunità, vive con l’arte di non essere governata. Sono società statali ma in realtà gli abitanti non si riconoscono affatto nello Stato. Non lo attaccano direttamente in maniera conflittuale ma più che altro non fanno quello che viene loro imposto di fare. Io mi sono reso conto abbastanza bene di questa cosa la scorsa estate quando sono stato in Nepal, dopo il terremoto; a Kathmandu a trenta giorni dal terremoto era evidente l’impossibilità totale di creare “zone rosse”. In Durbar square, la piazza principale con bellissime costruzioni antiche di templi, crollati o pericolanti, c’erano tutti i cartelli di “zona proibita” ma in realtà i motorini sfrecciavano ovunque, le signore vendevano gli ortaggi in strada ecc. Questo non vuol dire che sia una società più bella della nostra, ma mi è parso chiaro come nella quotidianità della gente ci sia veramente quest’arte di non essere governati.

Mi pare che nello sviluppo storico dell’umanità siano i criteri del dominio e della conquista ad aver maggiormente inciso, rispetto a quelle società primitive che invece vivevano in pace nelle loro comunità a-statali. Secondo te perché nella lunga storia umana alla fine sono riuscite ad imporsi la società statuale e l’economia del profitto?

Una risposta univoca non si può dare. Di certo, a mio parere, non ci sono stadi evolutivi nella storia della società umana, con passaggi necessari da un assetto a un altro come ci diceva la teoria marxista. Sul perché a un certo punto si introduca l’organizzazione di tipo statuale, con tutto ciò che ne consegue, gli antropologi hanno elaborato diverse ipotesi. Una di queste riguarda la figura del capo e il fatto che in caso di guerra detenesse il potere di tipo comando-obbedienza. Era un’eccezione legata alle necessità di un momento particolare, il momento dell’azione. Ma il prolungarsi delle battaglie deve aver determinato, a un certo punto, che questo potere diventasse stabile concentrandosi nelle mani di qualcuno. Un’altra lettura parte invece dal potere religioso. In queste società c’erano degli sciamani e probabilmente, a causa di calamità naturali o del prolungarsi di situazioni di carestia, un gran numero di persone ha sentito il bisogno di una protezione slegata dalla realtà quotidiana, portando in questo modo ad una cristallizzazione del potere religioso. In ogni caso, la formazione di gerarchie sociali è un processo che non si è compiuto dall’oggi al domani ma ha avuto bisogno di tempi molto lunghi.

Illustrazione di Giulia Pellegrini
Illustrazione di Giulia Pellegrini

 

Cosa ne pensi delle attuali pratiche di scambio e di condivisione rappresentate da tutto quello che gira attorno alla sharing economy?

Il capitalismo soprattutto in tempo di crisi è ben capace di sfruttare a suo vantaggio determinate tematiche come quella della condivisione, che è una buona economia, facendoci sopra il suo guadagno. Prima dicevo che la condivisione e il dono sono economie senza profitto, la sharing economy è una invece cosa differente ma che comunque rimane un passaggio perlomeno interessante. Se prendiamo l’esempio del car sharing e pensiamo all’abolizione in città di tutte le macchine private per lasciare solo macchine condivise, non sarebbe male. Ma qual è la differenza? È che nella sharing economy ci sono soldi che girano e c’è dietro qualcuno che fa profitti. Anche quello del coworking è un discorso stimolante, si lavora fianco a fianco con persone diverse, si crea uno scambio di saperi, si risparmia sulle bollette. A Milano negli ultimi anni c’è stato davvero un boom del coworking, ma anche qui la cosa pazzesca è che c’è qualcuno che lucra sui centimetri di tavolo che prendi in affitto. La sharing economy per come la conosciamo oggi è più che altro una soluzione per il capitalismo in crisi.

All’inizio della presentazione hai detto che ti occupi principalmente di etnografie dei migranti, qual è la tua visione sul fenomeno delle migrazioni oggi? Quali sono secondo te la strategie da adottare?

Partiamo dal dato di fatto che tutte le culture umane sono impure, tutte sono in transito. Ma fermarsi a quest’affermazione sarebbe semplicistico, è evidente che da dieci anni a questa parte stiamo affrontando un fenomeno che ha raggiunto una consistenza molto maggiore di quella a cui erano abituate le nostre società. Il perché, lo abbiamo sotto gli occhi. Non voglio far demagogia ma la colpa è dell’Occidente, è di quegli Stati che sono andati a colonizzare il mondo, che hanno depredato interi territori dove adesso è impossibile creare economie sostenibili, che hanno infine voluto esportare la democrazia. Avesse almeno garantito un minimo di vita degna e invece in certe zone adesso si sta molto peggio di prima e quindi le persone sono costrette ad andarsene. Ho raccolto molte testimonianze in questi anni di lavoro etnografico, molti migranti vengono qui perché scappano da una situazione economica impossibile, da guerre, da carestie.

Il discorso sarebbe lungo, ma andando proprio al nocciolo della questione io sono convinto che sia possibile creare un mondo che sappia accogliere e che sappia nutrirsi di questi fenomeni migratori, ma non c’è una via di mezzo: deve cambiare strutturalmente la società neoliberale che conosciamo. La soluzione non è al suo interno. A me ad esempio non piace parlare di “integrazione”, anche se il termine può essere usato con una valenza positiva, perché significa che qualcuno deve inserirsi nel mio corpo e io nel suo, mentre io più che integrare vorrei scambiare, vorrei trovare assieme la soluzione per la coabitazione e per un’intercultura reale. Anche il multiculturalismo non è un concetto che mi soddisfa, perché indica un separare le differenze e renderle poi omogenee in un insieme assurdo. Pensare di trovare una soluzione a tutto questo senza cambiare completamente lo stato delle cose nella fortezza Europa, nella fortezza Occidente, credo sia impossibile.

 

[1] Pierre Clastres, Archeologia della violenza, Milano, La Salamandra, 1982, p. 121.

[2] L. Pospisil, in Marshall Sahlins, L’economia dell’età della pietra: scarsità e abbondanza nelle società primitive, Milano, Bompiani, 1980, p. 67

[3] P. Clastres, Prefazione, in M. Sahlins, L’economia dell’età della pietra, cit., p. 11.

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