Mappe perdute. La settima onda
Di Valerio
Dimenticati o meglio sarebbe definirli nascosti, cancellati, rimossi, quegli uomini e quelle donne i cui nomi non trovano posto nei libri di storia, che magari rintracci a fatica o per caso in qualche foto ingiallita, dove stanno sullo sfondo, quasi fuori dall’inquadratura, sempre lontano da quelli che contano, o irrompono loro malgrado in qualche nota di libri che sono scritti per qualche altro motivo.
Uomini e donne che sono sopravvissuti per decenni, praticamente soltanto nel personale ricordo di quelli che un tempo li conobbero e che sono ancora convinti che se questi loro compagni non fossero esistiti, il mondo sarebbe un posto ancora peggiore di quanto già oggi non sia.
Uomini e donne sempre definiti come sognatori, utopisti, moralisti o peggio ancora poeti, o magari addirittura avventurieri.
Uomini e donne che compirono l’imperdonabile errore di dire quello che pensavano e di fare quello che dicevano, e che errore ancor più grande, volevano vivere da liberi qui ed ora, senza aspettare i tempi ragionevoli della storia. E per questo motivo patirono le più cocenti delle delusioni, le sconfitte più devastanti, e a cui, ironia della sorte, soltanto gli archivi delle tante questure che li perseguitarono e mandarono in galera rendono un involontario e postumo omaggio.
Di loro puoi ritrovare le tracce nelle furibonde battaglie di strada, nelle imprese disperate, in qualche guerriglia ormai dimenticata, in tutti quei tentativi di assalto al cielo che tutto erano fuorché soltanto una frase di poetica bellezza.
Per i tanti storici di professione, le vite di questi uomini furono mosse da incontrollabili furori, dalla ricerca di un assoluto che non è della realtà effettuale. Storie e vite che per quelli che detengono il potere, o che ad esso ambiscono, paiono simili al Mito prima che questo diventasse storia e che ritengono il loro ricordo buono al massimo da tramandare come il folclore di un’epoca ormai passata, quando le parole uguaglianza, giustizia, liberazione, comunismo, contavano per quello che esse volevano veramente dire.
Parole che per i professionisti della politica attengono alla realtà allo stesso modo in cui, in un tempo ormai lontano, le nonne raccontavano ai bambini, seduti davanti al fuoco del camino, le favole che sapevano di magico e di misterioso.
Sono migliaia e migliaia i dimenticati dalla storia, quando essa è scritta, specie in tempi di revisionismo, con le parole di chi ha vinto e detiene il potere.
Anche perché costoro tra loro si riconoscono e soprattutto si legittimano vicendevolmente, perché hanno un bisogno disperato gli uni degli altri e giustamente non possono accettare che ci siano stati degli uomini e delle donne che non hanno aspettato direttive, analisi politiche o altro, per prendere da sé nelle mani il proprio destino e consapevoli di tale scelta ne hanno pagato e ne pagano le conseguenze fino in fondo.
Il loro esempio può essere contagioso, la loro memoria può essere portatrice di strane pulsioni, di ancora più strani desideri, magari può ancora trovare qualche pazzo che al patrimonio che essi hanno inteso trasmettere si voglia ispirare.
Per questo vogliamo raccontare quegli anni quando ancora la televisione era in bianco e nero. Anni di rivolta, di conflitto di massa diffuso, in cui nel finire, tanti nostri compagni si tagliarono i capelli per scomparire nella clandestinità che li avrebbe portati al lento trituramento delle carceri speciali, e tanti altri ancora sbranati dal “Grande Drago” dell’eroina.
Ultimi patetici colpi di coda di un passato che si ostina a non terminare? Può darsi, a sentire chi dice che la politica è l’arte del possibile e di conseguenza essa non ammette scorciatoie né tantomeno utopie da inseguire, per costoro queste sono cose che attengono ormai all’immaturità dei popoli e dei tempi.
Anche se a ben vedere non si direbbe proprio. Basti pensare come fu salutata la notizia del primo gennaio del ’94, quando centinaia di indios bassi e dal viso del colore della terra avevano occupato San Bartolomeo de Las Casas e tanti altri villaggi dai nomi impronunciabili, persi tra la giungla degli altopiani di uno stato messicano che nessuno aveva sentito nominare…
Sono tempi duri i nostri, anni di guerra umanitaria infinita; dall’Afghanistan all’Irak, dalla ex Jugoslavia al mattatoio ceceno, passando per Gaza rasa al suolo periodicamente, alla guerra per procura dell’Ucraina, al tentativo filoguidato di costruire il Califfato da parte dell’IS. Per finire con l’Africa e le miriadi di conflitti e genocidi che coinvolgono milioni di persone. Tempi di barbarie enunciate senza ritegno alcuno quelli che oggi viviamo, tempi in cui per battere il terrorismo viene sdoganata pure la tortura.
Eppure, malgrado tutto lo spiegamento mediatico di cui oggi il potere dispone, esso continua ad avere una paura fottuta della memoria che il passato porta con sé.
Altrimenti non si spiegherebbe, ad esempio, perché il movimento del ’77, con tutto il carico d’innovazione, di conflitti e tragedie che portò con sé stravolgendo definitivamente i vecchi stereotipi della politica, un movimento di “brutti, sporchi e cattivi”, sia stato cancellato dal calendario del nostro paese; spesso e soprattutto da quegli stessi che non fanno altro che ricordarci, con la spocchia che sempre li contraddistingue, che loro “hanno fatto il ’68”. Sono talmente tanti quelli che si appuntano sul petto la medaglia di sessantottini, da trasformare gli scontri di Valle Giulia, poco più di una baruffa, in uno scontro campale tra tutta la polizia intergalattica e un corteo di studenti più lungo della muraglia cinese!
Nel rievocare i fatti di un passato che oggi ci appare così gravido d’insegnamenti, c’è sempre il rischio di confondere la memoria storica con il ricordo, la ricerca dell’utopia con il sogno, che altro non rappresenta se non la fuga dalla realtà. Il rifugio ultimo di chi ha ormai rinunciato a vivere nel presente e cercare di cambiarlo, per quanto dura e difficile, questa cosa possa apparire.
Negli ultimi mesi ci è giunta però la notizia che in una sperduta valle, il Rojava, ai confini tra la Siria e la Turchia, un piccolo pugno di donne e di uomini male armati e peggio equipaggiati ha strappato una città, Kobane, dal controllo del potente esercito dell’IS.
Uomini e donne che sembrano provenire dal trapassato remoto della storia. Uomini e donne che in quei luoghi stanno sperimentando una nuova e rivoluzionaria forma di convivenza. Il socialismo!
Le radici di questo processo, nato anch’esso negli anni ’70, in qualche modo ci riguardano.
Così come ci insegna Papillon, quando alla sua veneranda età saltò dalla scogliera per cavalcare la sua ultima “settima onda”, anche noi vogliamo raccontare quegli anni grazie ai ricordi di chi è stato protagonista “fuori squadro” di quel conflitto, e poter gridare un’ultima volta: “Maledetti bastardi, siamo ancora vivi! Siamo ancora qui!”.