Rompere l’assedio tecnologico
Di Luigi
Il capitalismo ha avuto bisogno dell’industria per imporre la propria organizzazione sociale e trova nella tecnologia asservita alle sue logiche di profitto la migliore alleata per perfezionare il proprio dominio: “sebbene la nascita del capitalismo non sia dipesa dallo sviluppo industriale, è evidente che è solo grazie all’industria che questo ha potuto realizzare tutte le aspirazioni che il suo programma di sottomissione economica conteneva” (Los Amigos de Ludd, Utopia e miseria del mondo industriale, bollettino n. 2).
Chiunque serbi ancora un residuo di semplice buon senso non può che constatare quanto la tirannia tecno-industriale stia vincendo la guerra contro l’umanità e, avendo rotto gli equilibri che hanno da sempre regolato l’ordine naturale, stia avvelenando e distruggendo il pianeta e le forme di convivenza possibili. D’altra parte non siamo convinti, come vorrebbe una facile lettura deterministica della storia, che il collasso della civiltà industriale sia imminente e inevitabile. Purtroppo la faccenda potrebbe andare avanti scovando sempre rinnovate stampelle e questa non è affatto una lettura rassicurante: “la peggiore catastrofe sarebbe l’assenza di catastrofe”, diceva qualcuno.
Che la tecnologia industriale non sia affatto neutrale dovrebbe essere ormai assodato. Non è adattabile allo sfruttamento o all’emancipazione a seconda di come la si guardi, ma è figlia di un sistema di dominio ben preciso, e intollerabile. La macchina in astratto esiste infatti solo nella menzogna secondo la quale i congegni riducono e alleggeriscono il lavoro umano, ma nella realtà ci si imbatte in una molto concreta meccanizzazione che è inseparabile dall’uso capitalistico per cui è nata, ovvero il progredire nella sottomissione di chi non ha e nell’innalzamento dei profitti di chi ha. Alla faccia di presunte scienze pure e disinteressate, il fine (che è spesso in prima battuta l’applicazione militare) condiziona la ricerca scientifica indirizzandola su precisi binari a scapito di mille altri possibili percorsi mai battuti. Ed è pertanto difficile, se non come esercizio di fantasia, un riutilizzo positivo di tecnologie pensate e sviluppate nel contesto di dominio del capitale, che in queste condizioni – e solo in queste – mostrano la loro vera utilità ed efficacia.
La tecnologia, quindi, non è semplicemente un mezzo escogitato dall’uomo per produrre più agevolmente, ma invadendo la totalità delle sfere della nostra vita materiale, ha rimodellato i rapporti tra gli uomini e con la natura nel segno di un crescente asservimento dei bisogni alle esigenze della produzione, e non viceversa, in un circolo vizioso per cui l’industria crea le necessità umane e poi vi provvede. E, questo, senza conoscere limiti: la sottomissione tecnologica della natura è un processo in perenne espansione, a prescindere dalle nocività che genera e dalle rovine che si lascia alle spalle. Senza contare che, il più delle volte, una nuova tecnologia serve solo a riparare i danni causati da una tecnologia precedente.
L’“obsolescenza programmata” ci offre un comodo punto di vista per riconoscere come la tecnologia sia al servizio del capitale e l’innovazione serva per prima cosa a far lievitare conti in banca e solo come effetto collaterale a migliorare aspetti della quotidianità. Un simpatico esempio tra i tanti è dato dall’introduzione sul mercato delle calze in nylon al posto di quelle in seta negli anni quaranta. La DuPont, accortasi che il nuovo prodotto era troppo resistente alle smagliature e che questo sarebbe stato negativo per i consumi e quindi per i propri profitti, richiese ai ricercatori di progettare una fibra meno durevole. O ancora, tornando alla questione del dove la ricerca scientifica viene indirizzata: è mai possibile che nessuno abbia interesse a risolvere tecnologicamente il problema della distruzione di foreste perché noi occidentali ci si possa pulire il culo con quattro veli? Rispetto al vecchio uso di giornali, acqua o foglie, oggi, in questo campo, possiamo ritenere di avere raggiunto un progresso?
Per non parlare dell’invasione delle materie plastiche, altamente inquinanti e indistruttibili, nella modalità usa e getta di cui l’umanità non sentiva alcun bisogno ma che in poco tempo è diventata la regola e oltre a causare danni ambientali irreparabili ha colonizzato perfino le coscienze. Basta guardarsi intorno per accorgersi di come vivere senza plastica, o meglio sarebbe dire senza rifiuti di plastica, è oggi non solo praticamente impossibile ma anche difficilmente concepibile.
Il fatto più grave è che mentre nei millenni di storia umana preindustriale la tecnica è sempre stata legata al saper fare ed era pensabile come conquista comune della collettività, padroneggiabile, ora le abilità sono un qualcosa di obsoleto, superfluo se non controproducente. Il macchinario ha infatti preso il sopravvento su una massa di utilizzatori che da esso dipendono senza comprenderlo né poterne aver alcun controllo: “la tecnologia, come già il mercato, non è un destino dal quale non ci si può affrancare, non è un’entità astratta che regola dall’alto le nostre vite e che al massimo possiamo controllare nei suoi effetti più devastanti, bensì la risultante di una precisa volontà di sopraffazione del capitale che ha costruito sullo spossessamento delle capacità tecniche dell’uomo il suo potere” (Per la critica della tecnologia, Bologna, Acrati, 2004).
Stefano Boni, nel suo bel libro Homo comfort: il superamento tecnologico della fatica e le sue conseguenze (Milano, elèuthera, 2014) confronta la contemporanea ipertecnologia con la tecnica ipotecnologica preindustriale: mentre la seconda richiede soggetti abili ed esperti, passa attraverso un processo di apprendimento, deriva strumenti e materiali dal mondo naturale circostante lasciandosi dietro scarti non tossici e dà forma a prodotti unici e durevoli, la prima prevede un atto umano anonimo e privo di creatività, dipende da fonti energetiche non direttamente controllabili, decontestualizza la produzione dall’ambiente introducendo le nozioni di rifiuto e inquinamento e genera prodotti in serie destinati a un rapido consumo. Ma se l’ipotecnologia prevede un certo grado di umana fatica, l’ipertecnologia promette di alleviare l’esistenza (certo, permangono mansioni faticose non eseguibili dai sistemi artificiali, ma per quelle ci sono i nuovi schiavi). Sudare è oggi antiquato: l’unico modo socialmente accettabile per farlo pare sia tra le mura di una palestra, pagando.
Però, obiettano i difensori dell’“unico mondo possibile”, la speranza di vita nella società ipertecnologica è in aumento. Vero, ma a quale prezzo? L’avvelenamento dei territori e la perdita del saper fare, come già detto, ma anche una progressiva perdita di contatto con la materialità della natura che non risparmia nessuno dei cinque sensi. Quello che i nostri corpi quotidianamente toccano, vedono, gustano, ascoltano e annusano, soprattutto per chi vive in contesto urbano, è in massima parte artificiale, il più possibile schermato dal contatto contaminante con la natura. Il prezzo è il trionfo dell’inorganico sull’organico.
Il macchinario, inoltre, apparecchiando un mondo di tecnocomodità, costruisce il consenso passivo delle masse: chi rifiuta i comodi benefici della tecnologia è fuori dal tempo del progresso, è un barbaro, una minaccia. Così, legandoci ad una dipendenza totale, la tecnologia impone le sue regole e si fa innanzitutto ordine sociale: “non si tratta di trovare una strada per il riorientamento di un determinato sistema tecnico, bensì di smantellare il fondamento ideologico che lega la società all’insieme delle necessità ingenerate dal sistema tecnico sotto la forma concreta che noi oggi subiamo (la forma industriale sviluppata)” (Los Amigos de Ludd, Note preliminari, bollettino n. 1).
In conclusione, non è possibile conciliare libertà e tecnologia, dal momento che in una società tecnologicamente avanzata l’individuo perde il controllo sulle circostanze della propria vita. E le nuove tecnologie, una volta introdotte, determinano con tale prepotenza l’assetto della società che alla fine ci si trova costretti al loro utilizzo. Rompere l’assedio tecnologico vuol dire aver l’audacia di mettere in discussione e provare a reinventare l’intero sistema di produzione e di consumo. Con questo non vogliamo proporre un bucolico ritorno al passato, cosa né possibile né desiderabile, non esaltiamo la zappa e la fatica e non sottovalutiamo le forme del dominio che hanno afflitto l’umanità nelle società preindustriali, così come non idealizziamo i modi della convivenza sociale prima del capitalismo. Se guardiamo al passato è per comprendere attraverso quali percorsi si sia arrivati all’oggi e, una volta appurato che così non va, ragionare sulle soluzioni per uscirne.
Il che non significa chiedersi come potremmo vivere senza questo o quell’apparecchio. La posta in gioco è più alta: non è possibile salvare alcuni aspetti “positivi” della tecnologia e rifiutare il resto, visto che l’intero sistema scientifico-tecnologico dominante è un sistema olistico, non scomponibile nelle sue componenti ma tutt’uno con l’assetto politico ed economico. Allora, l’unica domanda sensata per affrontare il superamento della tecnologia assoggettata al dominio è: “come possiamo sovvertire l’esistente, nonostante i rapporti di forza ci siano avversi?”.
Qui di seguito ripubblichiamo una autointervista dei Los Amigos de Ludd, gruppo spagnolo che tra 2001 e 2004 ha pubblicato un interessante «Bollettino d’informazione anti-industriale», uscito in edizione italiana a cura di ACRATI (Aggregazione contro la rovinosa avanzata della tecnologia industriale). Il Bollettino è consultabile presso la Biblioteca Travaglini di Fano.
Critica del nuovo mondo felice che si avvicina
Autointervista de Los Amigos de Ludd
Cosa comporta per voi il riferimento a Ludd e ai luddisti?
I luddisti erano lavoratori e lavoratrici inglesi che in un periodo compreso tra il 1811 e il 1813 si resero protagonisti di un movimento insurrezionale e agirono distruggendo i macchinari industriali. Si davano il nome collettivo di Generale Ludd o Re Ludd (o nomi simili). Attualmente, nel mondo anglosassone è comune che chiunque si opponga al progresso tecnologico venga tacciato con disprezzo di luddismo; ciononostante, sono in molti, dagli anni ’80 e ’90, coloro che in America hanno innalzato la bandiera del luddismo (con diverso rigore, naturalmente). Le azioni contro coltivazioni transgeniche in Francia, Belgio e Regno Unito, i sabotaggi contro il treno ad alta velocità in Italia, le occupazioni rurali nello stato spagnolo, i movimenti contadini di resistenza in Brasile e in India, tutto ciò è un ulteriore segno di una ribellione contro un progresso tecnoscientifico che sempre più si svela per quello che è: la strategia pianificata di uno sfruttamento senza fine. Sintetizzando, possiamo affermare che per noi il luddismo rappresenta un esempio di opposizione popolare attiva a una tecnologia che la tirannia industriale del capitalismo vuole imporre.
Tuttavia, mi risulta che il vostro livello operativo non sia molto alto.
Non siamo per l’esattezza un movimento di massa. Per il momento ci limitiamo a stendere un salutare discredito nei confronti della società industriale.
Ma in che misura pensate che il luddismo sia trapiantabile nel presente?
I trapianti non sono la nostra passione. La questione è un’altra. Bisogna comprendere che i luddisti reagirono contro un tipo di tecnologia che era la manifestazione evidente della distruzione accelerata delle loro comunità e delle loro forme di vita. I luddisti reagirono non solo contro i danni provocati dalle macchine, ma anche contro il sistema macchinista in sé e il tipo di produzione che implicava. Questo è un punto importante. In qualche modo avvertirono che il male stava tanto nel possesso e nello sfruttamento privato dei macchinari quanto in un tipo di organizzazione meccanizzata della produzione e del lavoro, che ai loro occhi comportava l’irruzione di una nuova vita con leggi antisociali. Detto in altri termini, essi intuirono che la tecnologia industriale poteva corrispondere solo a una determinata forma di sfruttamento della natura umana all’interno del suo habitat di convivenza: la forma capitalista, che ha bisogno di distruggere i legami comunitari, di isolare gli individui e di privarli di ogni mezzo che possa offrire loro una possibilità di autonomia materiale.
Ma non sarà questo un modo troppo benevolo e idealista di giudicare il passato preindustriale e le sue comunità?
È la nostra epoca che necessita di critici più severi. Oggi si tende piuttosto a idealizzare il presente. Noi non sosteniamo un improbabile ritorno al passato. Ciò che intendiamo mettere in evidenza è che la società industriale – con il suo ideale di progresso – ha falsificato tutta la nostra visione del passato. Oggi sappiamo che la creazione su scala universale di un Mercato e di uno Stato – un tempo limitati più o meno all’ambito nazionale, oggi planetario – ha occultato la storia su piccola scala di forme di organizzazione sociale e comunale più eque e razionali e meno nocive per l’ambiente naturale, che convissero con forme di potere o con sistemi religiosi che, sebbene inaccettabili, non opprimevano completamente, o non sempre e non in tutti i luoghi come accade oggi, l’autonomia sociale della comunità. Tutto ciò apparirà come una verità sospetta per le menti progressiste di oggi, che tendono a vedere il passato come un’epoca oscura e superata. Quando in epoche precedenti le popolazioni si ribellavano contro l’iniquità e la giustizia arbitraria dei potenti (nobiltà, ricca borghesia, clero e Corona) sapevano quantomeno che erano i loro mezzi di sostentamento – la terra, il legname, i cereali o i pascoli – che erano in gioco. Non separarono mai i loro ideali sociali – per quanto poveri fossero – dai loro mezzi diretti di sussistenza (che, in quel momento, erano ancora nelle loro mani). E nemmeno dai loro mezzi diretti di autogoverno (l’assemblea o il consiglio): oggi qualunque rivendicazione sociale deve passare attraverso il dominio astratto del mercato, attraverso la burocrazia dello Stato o del riformismo sindacale. Ogni conflitto si gioca intorno a mediocri esigenze che obbediscono alla logica economica dei potenti (che si tratti del potere d’acquisto o dei diritti civili). L’identificazione della ricchezza con il “denaro” è oggi a tal punto banale, e lo è dai tempi di Balzac, che quasi nessuno si chiede se esista una forma di vita che non sia merce acquistabile. Si lavora senza posa per undici mesi per poter vedere o mangiare una trota di fiume, fare il bagno in mare o fuggire dal feroce rumore delle città. Il riposo feriale è la burla sinistra del potere ad uso dei suoi schiavi. Nella società del capitalismo industriale la maggior parte delle lotte si focalizza su contrattazioni che riguardano condizioni di vita già di per sé deteriorate: si chiede una migliore distribuzione del reddito, ma non si mette in discussione ciò che in realtà è possibile ottenere attraverso tale reddito (una sopravvivenza in una periferia urbana? migliori superstrade nelle quali morire più velocemente? più polisportive? maggior consumo di surrogati?); si discute di salario, ma non della natura stessa del lavoro salariato; si chiede una maggiore protezione sociale di fronte al Mercato, ma non si mette in discussione l’esistenza stessa antisociale del Mercato; si cerca rifugio nello Stato e si dimentica che è stato questo che ha reso possibile che il terreno sociale divenisse il campo di battaglia della guerra economica del capitalismo. Intanto, la biosfera si va deteriorando di fronte a un assalto dissipatore sempre più crescente. Lo sfruttamento capitalista non sarebbe mai stato possibile se non si fossero industrializzate le nazioni e le popolazioni. L’opposizione tra la campagna e la città non può essere una scelta da fine settimana: nella distruzione di ogni forma di vita rurale e comunitaria è ben chiara l’origine del dominio totale che oggi subiamo.
Se ho compreso bene, voi criticate la società industriale che è nelle mani del potere capitalista, ma accettereste un tipo di società industriale governata dal potere autorganizzato della gente.
Hai capito piuttosto male. Per noi la società industriale, la sua organizzazione del tempo e del lavoro, la sua nocività e l’utilizzazione delle sue tecnologie è consustanziale al modello economico del capitalismo. Le due cose sono inseparabili.
Ma se siete così interessati a criticare la società capitalista non dovreste riprendere l’analisi marxista dell’economia politica e farla finita con queste critiche ad effetto alla tecnologia e al progresso scientifico?
Pensiamo che la maggior parte della scuola marxista abbia subito il fascino della rivoluzione capitalista della produzione, così come del macchinismo e della classe lavoratrice urbana. Qui inizia il problema. Marx salutò la nascita della classe proletaria come un qualcosa di benefico: credette che dal negativo – la miseria totale della classe lavoratrice industriale – sarebbe derivato il positivo – il comunismo. Per questo egli vide la rivoluzione capitalista e l’economia borghese come un momento critico ma necessario, il momento in cui si sarebbe generata quella classe rivoluzionaria che avrebbe conquistato il potere. L’economia borghese avrebbe imposto le condizioni oggettive per questo cambiamento fondamentale: la distruzione di tutti i vecchi legami comunitari e lo spossessamento totale degli individui. La questione, in buona sostanza, era che la classe lavoratrice prendesse le redini del movimento progressivo della Storia e si lasciasse alle spalle il vecchio mondo. Crediamo che questa visione dell’antagonismo sociale sia povera e storicamente ingannevole. Quindi, riteniamo che non ci sia alcun progresso nella Storia, e nemmeno che dal negativo estremo debba scaturire l’estremo positivo. Il processo di degrado sociale a cui la rivoluzione industriale ha dato impulso distrusse, certamente, i legami con un passato pieno di ombre e di luci, ma non fu di grande aiuto perché si forgiasse una classe con una chiara coscienza di emancipazione. Principalmente perché le generazioni nate dalla rottura avevano perduto il contatto con pratiche di socialità diretta, saperi non frammentari, beni comunitari, tecniche di produzione semplici, mutuo appoggio, ecc. Il marxismo più ortodosso accettò per buona la visione progressista della storia, ereditata dal pensiero liberale capitalista. Benedisse la Scienza e la sua applicazione industriale.
Considerate anche la Scienza come un alleato oggettivo del potere capitalista?
La mera formulazione di questa domanda contiene già in sé la sua risposta. Nell’Età moderna la Scienza necessita di grandi quantità di mezzi e di un gigantesco campo di sperimentazione per sviluppare le sue indagini; le imprese e lo Stato offrono entrambe le cose: denaro e tutto il corpo sociale sul quale sperimentare con le sue innovative scoperte. In cambio la Scienza deve accettare criteri di produttività elevati, specializzazione, divisione del lavoro e disciplina industriale… ah!, dimenticavamo, anche un rigoroso silenzio complice allorquando qualche esperimento sfugge dalle mani e produce una catastrofe, il che non è infrequente.
Mi sembra che voi giochiate a terrorizzare la gente presentando un’idea della tecnologia e della scienza come prodotti di un incubo totalitario. Forse le vostre osservazioni erano utili per un’epoca – quella più oscura – della civiltà industriale. Ma oggi, non lo potete negare, la moderna tecnologia si pone al servizio delle comodità della gente, non la priva dei suoi modi di vita, ma crea invece le condizioni di un benessere sempre rinnovato.
Forse lei guadagnerà un buon stipendio nel corso della sua vita pubblicando queste sciocchezze. Per quanto ci riguarda, pensiamo sia naturale che la tecnologia di consumo appaia oggi come una compensazione miracolosa in un mondo in cui tutti i veri valori necessari all’umano sono proibiti. Nella società divisa qualunque offerta tecnologica appare come una benedizione: ai moderni schiavi che hanno perduto perfino la capacità di riunirsi, non rimane altro che rafforzare il proprio isolamento con strumenti tecnici sempre più perfezionati. In tal modo, l’imprigionamento appare loro ancora sopportabile.
Esagerate davvero…
La nuova società che vogliono imporre si prepara a sopportare allegramente la sua crescente disumanizzazione. Per quanto riguarda la coscienza, sarà necessario rendersi insensibili al degrado delle relazioni umane – degrado in uno stato già molto avanzato –, perdere ogni prospettiva di autonomia personale e collettiva. Per quanto riguarda invece le conquiste materiali, sarà necessario accettare la possibilità di ricostruire tecnicamente la biosfera – e la sostanza umana – per preparare entrambe a uno sfruttamento economico di dimensioni mai viste. A partire da qui molti sceglieranno la propria modalità di sopravvivenza o di adattamento. Noi, nella misura delle nostre possibilità, cercheremo alleati che non accettino le condizioni di questa resa della coscienza.