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Trafficanti di armi nel Montefeltro: la Benelli di Urbino (#3)

Trafficanti di armi nel Montefeltro: la Benelli di Urbino
Di Luigi

Il businness delle armi non è mai stato pulito. Da secoli si intreccia con la promozione di politiche repressive e reazionarie, con la cinica riproduzione e alimentazione di conflitti armati per aprire nuovi mercati e con intense amicizie nelle stanze del potere. Il crudele omicidio di Stato di Giulio Regeni al Cairo nell’anniversario della rivoluzione (sconfitta) del 25 gennaio 2011 ha rotto il velo dell’ipocrisia mostrando quanto il governo italiano sostenga in modo strutturale il regime militare egiziano. L’agitazione sguaiata dei nostri politici nel rassicurare l’opinione pubblica sulla volontà di verità delle istituzioni copre la cattiva coscienza di chi sostiene l’armamento e l’addestramento dei mastini egiziani. Il 20 dicembre 2014, il ministro Roberta Pinotti ha firmato un accordo di cooperazione militare con il ministro della Difesa egiziano, generale Sedki Sobhi, mentre le aziende italiane vendono armi che sostengono la repressione interna. Questa volta le contraddizioni cadono molto vicino a noi. L’OPAL di Brescia (Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa) a inizio febbraio 2016 ha reso pubblico che la Benelli Armi di Urbino (gruppo Beretta) tra maggio e giugno 2015 ha spedito 1.266 fucili nell’Egitto del regime militare di Al-Sisi. L’azienda di Urbino è produttrice del fucile antisommossa M4 S90, utilizzato dalle forze speciali e di sicurezza di numerosi paesi. Il cerchio si chiude facendoci sentire che il dolore per le vittime è legato a una catena di cause e di responsabilità che arriva fino a molto vicino a noi. Detto questo, la nostra opposizione all’industria delle armi non sposa le posizioni del pacifismo, essa è semplicemente parte del tentativo di restare umani, di sabotare la normalità della repressione brutale che colpisce i nostri fratelli e sorelle egiziane. La crudele tragedia di Giulio ci ha colpiti quando la stesura di questo articolo era già quasi completata, confermandoci purtroppo che stavamo guardando nella direzione giusta.

Benelli Armi - Urbino [1]
Benelli Armi – Urbino

Personalmente ho un paio di ricordi legati alla Benelli Armi di Urbino. Il primo è un po’ sfuocato, risale ai tempi delle scuole elementari: un giorno la nostra classe sale sullo scuolabus giallo e viene portata in “gita d’istruzione” a guardare la catena di montaggio dei fucili e una specie di poligono all’aperto dove venivano testati. Pare che oggi, con quel minimo di pudore che consiglia di evitare l’accostamento bambini-armi, queste esperienze formative non vengano più ripetute. Il secondo ricordo è più nitido, siamo verso gli inizi degli anni Duemila e all’osteria “La stazione”, un simpatico bar ricavato nell’ex stazione ferroviaria di Urbino, confinante con la fabbrica, suonano i Father Honey, gruppo cover dei Rage against the machine. Il concerto viene però disturbato dall’arrivo di alcune pattuglie di carabinieri, richiamate dal custode visto che qualche scalmanato sull’onda di Fuck you, I won’t do what you tell me, aveva preso a bersagliare i capannoni della Benelli con bottiglie e sassi dei binari.

A Urbino quasi tutti hanno almeno un parente, un vicino di casa o un conoscente stipendiato dalla Benelli, una fabbrica che non conosce crisi, l’unica vera industria della città e il suo principale motore economico, insieme all’Università. Chi ci lavora passa il proprio tempo a progettare, produrre, promuovere e vendere fucili per la caccia e la guerra. Armi il cui scopo è quello di uccidere qualcuno, che sia una quaglia, una lepre, un cinghiale. O un essere umano. Le armi sono fatte per sparare. È dimostrato che più sono le armi in circolazione, più aumenta il numero degli omicidi. E Benelli fa la sua buona parte nell’incrementare l’arsenale di 875 milioni di armi leggere attualmente in giro per il mondo, che provocano, al di fuori di teatri di guerra, oltre 300 mila morti ogni anno, 34 all’ora[1].

Benelli Armi - Urbino [2]
Benelli Armi – Urbino

La Benelli Armi di Urbino nasce nel 1967, fondata dai titolari dell’omonima azienda di motociclette di Pesaro[2]. Grazie ad alcune originali intuizioni tecniche riesce fin da subito a produrre fucili impeccabili e con un meccanismo di riarmo tra i più veloci del mondo, tanto da imporsi nel corso degli anni come azienda leader del proprio settore, in particolare per la produzione di fucili semiautomatici. Nel 1983 viene acquisita dalla Fabbrica d’armi Pietro Beretta e nel 1995 entra in Beretta Holding Spa, gruppo che, tra le altre cose, si presenta come “uno dei più importanti partners dei paesi di tutto il mondo quale fornitore di soluzioni integrate destinate alle forze di difesa ed agli apparati governativi impegnati nel mantenimento dell’ordine pubblico”[3]. Nel 2007 festeggia il traguardo di 2 milioni di fucili prodotti in 40 anni e nel frattempo incorpora un’altra storica produttrice di fucili, la ditta Franchi, che trasferisce la propria sede a Urbino. Oggi Benelli Armi Spa ha circa 300 dipendenti, un valore della produzione di 104 milioni di euro e utili annui per oltre 10 milioni (dati del 2014). Chi volesse recarsi a fare una visita in azienda incontrerà in cima alle scale del reparto uffici un grosso leone imbalsamato, tanto per mettere subito in chiaro e in bella vista la sfacciata arroganza di chi col fucile in mano si crede padrone del mondo.

Benelli è infatti un marchio di riferimento per i cacciatori italiani e non solo. Avere tra le mani un fucile delle serie Raffaello o Montefeltro è un motivo di orgoglio per questi individui pericolosi, gente che si diverte ad alzarsi prima dell’alba per andare in giro nei boschi a sparare a tutto ciò che si muove. Disseminano piombo sui terreni, uccidono per il piacere di farlo e allo stesso tempo avanzano fantasiose pretese di accreditarsi come amici della natura e paladini della protezione ambientale. Per il loro piacere morboso, c’è chi dice patologico, lavorano i nostri amici urbinati, incuranti dei “danni collaterali”: nell’ultima stagione (settembre 2015-gennaio 2016), in 66 giorni disponibili per l’attività venatoria sono imputabili alle armi da caccia almeno 18 morti e 69 feriti, tra cui 4 minori[4]. Altre categorie afflitte da disagio esistenziale sono quelle dei collezionisti di armi e di coloro che tengono la pistola nel cassetto o il fucile nell’armadio da accarezzare di tanto in tanto per sentirsi potenti: “si tratta di surrogati di amanti segrete mai esistite o degli orsetti di peluche che questi omoni insicuri e mal cresciuti nella mente non hanno potuto abbracciare da bambini?”[5].

In quei capannoni verdi a due passi dalle mura di Urbino vengono prodotte oltre ad armi da caccia, per competizioni sportive e collezionismo, anche dotazioni per forze di polizia, compagnie di sicurezza private, forze speciali ed eserciti di tutto il mondo. Poche parole, ma ben confuse, quelle del direttore commerciale: “noi non produciamo armi militari – ci tiene a precisare – ma solo armi civili: se poi riforniamo anche le forze dell’ordine, questo non significa che il prodotto nasce per loro”[6].

Made in Urbino
Made in Urbino

“Armi civili”, appunto. La maggior parte delle guerre in corso sono guerre cosiddette “a bassa intensità”, combattute principalmente con armi civili, leggere e di piccolo calibro. Mentre per le armi da guerra la normativa è alquanto rigorosa e sono necessarie le autorizzazioni dei ministeri della Difesa e degli Esteri, per le esportazioni di armi ad uso civile è tutto più semplice, che poi finiscano in scenari di conflitti armati è cosa che non interessa nessuno, tantomeno chi le produce e vende. “Pistole, revolver, fucili e carabine, concepiti per la caccia, l’uso sportivo e l’autodifesa, nonché le relative componenti e le munizioni, godono così di una grande capacità di movimento e possono entrare pressoché indisturbati anche in paesi colpevoli di gravi violazioni dei diritti umani, sottoposti a embargo dell’ONU o dell’UE e paesi con guerriglie in corso sul proprio territorio”[7]. Ci sarebbe in realtà una Posizione comune europea (2008/944/PESC) a stabilire che gli “Stati membri sono determinati a impedire l’esportazione di tecnologia e attrezzature militari che possano essere utilizzate per la repressione interna o l’aggressione internazionale o contribuire all’instabilità regionale”, ma l’adesione a queste norme è solo di facciata, non essendo né vincolanti né sanzionatorie.

L’Italia è uno dei maggiori esportatori a livello globale di “armi civili”: la quota di esportazione della produzione armiera italiana, concentrata soprattutto nella bresciana Val Trompia, supera il 90% della produzione[8]. Le armi sono infatti una delle eccellenze del made in Italy sui mercati mondiali, apprezzate ovunque per qualità, design e affidabilità. La Benelli non è da meno. Esporta ovunque nel mondo, senza troppi riguardi per chi sia l’acquirente, purché paghi. Zone di conflitto, politicamente instabili o sull’orlo della guerra civile non sono altro che “mercati”, i regimi a democrazia limitata, dove la violazione dei diritti umani è la regola, sono buoni “clienti”, i fucili che forse spareranno nelle strade sono “prodotti” da vendere. Nell’export urbinate di armi figurano le zone di maggior tensione del pianeta, i governi autoritari della penisola araba, i regimi dispotici del Medio Oriente e del Nord Africa, riforniti di fucili, in maniera perfettamente legale, anche nel pieno delle rivolte popolari della “Primavera araba”. Fucili serviti per uccidere, ferire, imprigionare arbitrariamente migliaia di manifestanti. Ma si sa: business is business.

Il miglior acquirente rimangono però gli Stati Uniti, dove dal 1997 opera la Benelli USA Corporation, azienda collegata alla casa madre italiana. I trafficanti di armi senza scrupoli che vivono e lavorano in mezzo a noi, tra le dolci colline del Montefeltro, devono essere ben felici dell’incredibile facilità con cui si acquistano – e si usano – le armi negli Stati Uniti. Nella patria della democrazia il famoso secondo emendamento della costituzione (1791) sancisce infatti il “diritto dei cittadini di detenere e portare armi”. Se ne torna a bofonchiare dopo ogni strage in qualche scuola, campus o cinema, ma nessuno è mai riuscito a porre un freno alle licenze di porto d’armi.

Per capire meglio di cosa stiamo parlando basta sfogliare il catalogo “Benelli: defence and law enforcement”[9], dove fanno bella mostra le gamme di fucili M2, M3, M4, Nova e Supernova. Armi ben note a militari e sbirri di tutto il mondo, apparse anche in Robocop 2, Miami Vice, Fast&Furious e diverse altre americanate su grande schermo. Il vero fiore all’occhiello è l’M4 Super 90, un fucile semiautomatico calibro 12/76. La sua storia ha inizio nel 1998, quando la Difesa statunitense decide di rinnovare l’arsenale dei fucili destinati alle proprie forze armate. La Benelli propone la sua nuova creazione e si aggiudica l’asta. Aver vinto la fornitura all’esercito USA, sbaragliando concorrenti come la produttrice del mitico kalashnikov AK, è un colpo grosso per l’azienda urbinate. Nel 1999 un primo lotto di 20 mila pezzi va ad armare il corpo dei marines che, tra l’altro, ne farà ampio uso in Iraq e Afghanistan. Da allora, con un effetto a catena, tutti vogliono il combat shotgun Benelli. E da Urbino, d’ora in poi, non si guarderà più solo a qualche sfigato cacciatore di provincia.

L’M4 oltre al piombo può sparare palle e pallettoni di gomma e cartucce penetranti a gas lacrimogeno o fumogeno. È un’arma antisommossa e da incursione, pensata per distanze ravvicinate, per un nemico che “sbuca d’improvviso”. “Serve per il controllo di masse, di popolazioni, di centri abitati”, affermava il direttore dello stabilimento compiaciuto del nuovo mercato a stelle e strisce: “pensi al poliziotto che spara correndo in automobile: lo avrà visto nei film, col loro fucile a pompa o spara o guida, e il più delle volte l’auto si rovescia. Con un’arma semiautomatica, basta che lei si sporga con un braccio. Morale: questa è un’arma che abbiamo inventato noi, ma è nella loro filosofia. L’Europa li copierà. Le polizie europee seguiranno. Tra le europee, la polizia italiana è stata la prima”[10].

In effetti, il fucile prodotto dalla Benelli viene utilizzato in Italia dalle forze speciali dei NOCS e GIS, ma è anche in dotazione a esercito, carabinieri, paracadutisti. In Spagna lo imbracciano i famigerati Mossos d’Esquadra, la polizia catalana nota per la gestione oltremodo violenta dell’ordine pubblico: dal 2009 al 2012 sette persone hanno perso un occhio per i proiettili di gomma sparati dai fucili made in Urbino e a Barcellona è nata addirittura un’associazione, Stop Bales de Goma, che si è battuta per la proibizione dell’uso di questi proiettili (oggi effettivamente vietati, anche se sostituiti con altri)[11]. L’elenco degli eserciti e delle polizie che hanno scelto l’M4 è davvero nutrito e conta i più brutali gruppi d’intervento speciale di Francia (GIGN), Germania (GSG9, SEK e MEK), Irlanda (ERU), Grecia (EKAM), Gran Bretagna (SAS), Georgia, Lituania, Slovacchia e Slovenia. Fuori Europa lo troviamo in servizio, a vario titolo, nelle forze speciali e di polizia in Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Giordania, Kuwait, Indonesia, Iraq, Israele, Libia, Malesia, Oman. Se andiamo a vedere che posizioni occupano questi Stati nella classifica Democracy Index elaborata dal settimanale «The Economist» i risultati parlano da soli: su 167 paesi il Kuwait è al 120° posto, l’Oman al 139°, il Bahrain al 147° e gli Emirati Arabi Uniti al 152°. E ancora fucili Benelli in Australia, Giappone, Egitto, Marocco, Russia, Ucraina, Brasile etc.[12] Giusto per fare un altro esempio, in quest’ultimo paese, nel 2014, la Brigada de Operações Especiais e la Polícia do Exército armate di fucili Benelli M4 si sono distinte nella feroce repressione delle proteste popolari, scaturite dai livelli di spesa sostenuti per la Coppa del mondo in contrasto con la povertà circostante e la mancanza di investimenti nei servizi pubblici.

In queste settimane di febbraio 2016 la rabbia e l’indignazione mosse dall’omicidio di Giulio Regeni hanno iniziato a mettere in discussione l’ipocrisia sui traffici di armi con l’Egitto. L’attuale regime militare è ritenuto responsabile da tutti gli osservatori internazionali di persecuzioni, torture, sparizioni e omicidi di centinaia di oppositori. Livelli talmente intollerabili che perfino l’Unione Europea ha decretato nel 2013 la sospensione delle esportazioni di armi e materiali utilizzabili ai fini di repressione interna. Ma l’Italia, e in particolare la nostra Benelli, hanno il problema di non sentirci da quell’orecchio: ciò che intralcia le attività dell’ufficio vendite è solo fastidioso mormorio e allora via con casse su casse di fucili alle forze di polizia e sicurezza egiziane. Che poi, forse, le imbraccino mentre torturano un Regeni qualunque, non è affar nostro[13].

La storia più eclatante rimane comunque quella del traffico di armi con la Libia. Dal 1987 vigeva per questo paese l’embargo al commercio di armi, ma la Libia è un buon partner commerciale ricco di risorse petrolifere, tanto che nel 2004 le sanzioni economiche vengono meno (torneranno nel 2011) sia da parte statunitense che europea e il paese viene riarmato. Ebbene, nel 2009 la Direzione armamenti della pubblica sicurezza di Gheddafi riceve dall’Italia qualcosa come 7.500 pistole, 1.900 carabine Beretta e 1.800 fucili modello M4 della nostra Benelli. D’altra parte il rais era in quegli anni un amico, lo ricordiamo accolto con tutti gli onori a Roma, con le sue amazzoni e le sue tende del deserto. Quegli stessi fucili appena un paio di anni dopo, nel 2011, saranno usati per reprimere nel sangue le rivolte di piazza contro il regime libico, quando per reclamare democrazia persero la vita diverse migliaia di civili. Nel frattempo c’era chi denunciava come la Libia fosse diventata un “open-air arms market a cui le formazioni di al-Qaeda del Maghreb islamico potevano attingere. Un semplice effetto collaterale”[14] e, oggi, nel caos della nuova guerra civile libica non si sa più chi combatta con quelle armi, in mano a quale fazione siano finite.

L’operazione Benelli-Beretta del 2009 fu un’esportazione perfettamente legale di armi civili, ma poco opportuna visto il precario equilibrio politico libico e che in effetti si cercò di far passare sotto silenzio, senza darne alcuna comunicazione al parlamento. Il trasporto partì dal porto di La Spezia e fece scalo a Malta. Ma come venne scoperto e denunciato all’opinione pubblica? La storia sarebbe da ridere se non parlassimo di armi, sangue e morte. In sostanza, allo scoppiare della rivolta contro il dittatore libico, diversi giornali hanno riportato i dati riguardanti i principali fornitori europei di armi a Gheddafi. Nell’elenco la piccola Malta si trovava sorprendentemente tra i primi cinque posti, per un’enorme fornitura di armi leggere da 80 milioni di euro. A qualcuno venne allora un sospetto… Malta? Ma com’è possibile se a Malta non c’è neanche una fabbrica di armi e munizioni! Alla fine le autorità maltesi ammisero un banale errore di trascrizione, senza il quale la storia non sarebbe mai venuta a galla: non si trattava di 80, ma di 8 milioni di euro. Per inciso, dichiararono che le armi erano di provenienza italiana[15].

Ecco qui, in conclusione, la banalità del male: una comunità di gente per bene inconsapevole o noncurante delle conseguenze delle proprie azioni. Lasciando da parte i dirigenti dell’azienda, quel tipo di persone la cui scomparsa renderebbe il mondo un posto migliore, la maggior parte di chi ci lavora trascina la propria routine quotidiana tra canne lisce, caricatori, grilletti e mirini, senza porsi troppe domande, così come costruirebbe biciclette o pentole, ritenendosi anzi fortunato ad avere un posto fisso e un buon stipendio; qualcun’altro invece domande se le pone, ma in mancanza di alternative la pagnotta prevale purtroppo sugli scrupoli etici e questo, vuoi o non vuoi, è comprensibile. Quest’articolo intende solo gettare uno sguardo sugli interessi della Benelli Armi, non certo giudicare né tantomeno condannare le necessità della vita che hanno portato i singoli a timbrare quel cartellino. Esclusi, ovviamente, quel manipolo di ottusi operai in tuta rossa che in una fabbrica di strumenti di morte ha trovato la propria ragione di vita e certi “sindacalisti” con i loro lacrimevoli discorsi alle kermesse di autocelebrazione dell’azienda: “il nostro Presidente – ha dichiarato un rappresentante sindacale in occasione di una festa un paio di anni fa – ci ha insegnato ad essere come una famiglia, prima di squadra, prima di team, prima di colleghi di lavoro”[16].

[1] Cfr.: Killer facts: the impact of the irresponsable arms trade on lives, rights and livelihoods, London, Amnesty International, 2010; <http://www.controlarms.org>; <http://www.smallarmssurvey.org>. Tutti i link sono stati controllati in data 22 febbraio 2016.

[2] Per conoscere un po’ di storia dell’azienda e la mentalità del suo fondatore, chi non avesse di meglio da fare può anche leggersi il tremendo Giovanni Benelli, Organizzazione e tecniche per industria Benelli Armi (1971.1975), Urbino, AGE, 1976.

[3] Cfr. <http://www.berettaholding.com>.

[4] Si vedano i dossier annuali prodotti dall’Associazione Vittime della caccia,<http://www.vittimedellacaccia.org>.

[5] Piero P. Giorgi, L’attrazione per le armi leggere: origini della malattia, possibile cura e programma di prevenzione, in OPAL, Difendiamoci dalle armi: finanza, immaginario collettivo e nonviolenza, Bologna, EMI, 2010, p. 85.

[6] Diana Orefice, Raffaello, il fucile di Urbino, «Il Ducato», a. 24, n. 2, 21 febbraio 2014.

[7] Antonio Lamanna, Armi leggere, guerre pesanti. Rapporto 2015, «Sistema informativo a schede», mensile dell’Istituto di ricerche internazionali Archivio disarmo, n. 4, 2015, p. 17.

[8] Per il settore armiero “civile” italiano una ricerca condotta qualche anno fa dall’Università di Urbino per ANPAM (Associazione nazionale produttori armi e munizioni sportive e civili) registrava la presenza in attività di 233 produttori di armi e munizioni, 179 fornitori specializzati e 1.852 tra fornitori generici e imprese ausiliarie, con oltre 11.000 addetti diretti che salgono a 94.000 considerando anche quelli dei settori collegati (Enel ne ha 82.000, Eni 71.000), una produzione di oltre 600 mila armi e 900 milioni di munizioni, per il 90% destinate al mercato estero e un fatturato complessivo del settore di circa 500 milioni di euro, se si comprendono i settori collegati il giro d’affari è di 8 miliardi (quello di Ferrovie italiane è di 7,5 miliardi). Cfr. Fabio Musso, Marco Cioppi, Barbara Francioni, Il settore armiero per uso sportivo, venatorio e civile in Italia: imprese produttrici, consumi per caccia e tiro, impatto economico e occupazionale, Milano, Angeli, 2012.

[9] Cfr. <http://www.benellile.com> e <http://www.berettadefence.com>.

[10] Ferdinando Camon, Un fucile italiano per il soldato Ryan Sarà adottato dai marines, spara nove pallettoni, «La stampa», 13 aprile 1999.

[11] Cfr. <http://www.ilcorsaro.info/altrove/mossos-d-esquadra-il-lato-oscuro-di-barcellona.html> e <http://stopbalesdegoma.org>.

[12] Cfr. Vittorio Balzi, Più duro dell’acciaio, «Armi magazine», a. 19, n. 2, febbraio 2013, p. 60-69, <https://en.wikipedia.org/wiki/Benelli_M4> e <http://www.confindustria.pu.it/aziende>. Si vedano anche: Vittorio Balzi, Benelli M4 a tutto gas, «Diana Armi», n. 5, maggio 1999, p. 38-45; Giuliano Cristofani, Combat shotgun: Benelli M2 e M4, «Armi», a. 39, n. 12, dicembre 2006, p. 101-105.

[13] Cfr.: Stefano Pasta, L’Egitto fa fuoco con Beretta, «Il Fatto quotidiano», 6 febbraio 2016; In Egitto pesanti violazioni dei diritti umani, l’Italia rispetti la decisione UE di sospendere invio armi, comunicato della Rete italiana per il disarmo, 9 febbraio 2016, <http://www.disarmo.org/rete/a/42735.html>.

[14] Giorgio Beretta, Il caso Libia: armare dittatori e insorti, in Dossier. Affari globali per gli armamenti, «Missione Oggi», aprile 2012, p. 30.

[15] Cfr.: Francesco Vignarca, La vera storia delle armi italiane in Libia: ecco come è avvenuta nel 2009 la fornitura di 7.500 pistole e di 3.700 fucili “made in Italy” al regime di Gheddafi, «Altraeconomia», <http://www.altreconomia.it/site/fr_contenuto_detail.php?intId=2685>; Giorgio Beretta, Le esportazioni europee di armi alla Libia: un caso da manuale, in Affari di armi, percorsi di pace: attualità, ricerca e memoria per la pratica della nonviolenza, Bologna, EMI, 2012, p. 29-50.

[16] Grande festa alla Benelli Armi, «L’Altro giornale», 25 ottobre 2013, p. 35.

4 commenti su “Trafficanti di armi nel Montefeltro: la Benelli di Urbino (#3)”

  1. L’articolo è offensivo passibile di querela ….. Cosa che probabilmente faró ….
    Definire cacciatori gente pericolosa che si alza prima dell’alba per sparare a tutto ciò che si muove è falso e generalizza … Colui che ha scritto questo articolo è semplicemente un imbecille privo di intelletto in cerca di facili consensi ….
    E qui mi fermo altrimenti passerei io da offensivo …..
    Vergognatevi voi giornalettari siete peggio dei politici …. Siete solo puttane in cerca di consensi e soldi provenienti da altri cretini che leggono le minchiate che scrivete!!!!!

  2. Ciao Gabri, ci fa piacere che oltre a lucidare lo schioppo hai tempo di leggere qualche riga. Vai tranquillo, siamo grandi non ci offendiamo. Ora ti saluto, però cerca di rosicare un po’ meno, che ti si sente a distanza.

    1. Grande risposta! Gente pericolosa, che pur di divertirsi ti spara a 20 metri da casa all’alba in violazione di qualsiasi legge, che non capisce che non ha in mano uno spazzolino o un frullatore, ma qualcosa di più pericoloso con il quale si possono commettere errori irreversibili. Però, come avete scritto più sopra, per fortuna che ci sono loro a tagliare qualche rovo nelle nostre zone boschive se gli impedisce il passaggio. Anche il cervello più consapevole deve trovare una giustificazione per quello che decide, se non la trova va bene una scusa, se non trova nemmeno quella meglio una bugia che proprio niente del tutto. Chissà se quello sopra ha esposto querela…

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