di Redazione [QUI IL PDF]
Diciamocelo: la cosiddetta “classe dirigente” non ha idea di come uscire da questa situazione. Per mesi il governo italiano, in buona compagnia con quello degli altri paesi, è stato incapace di elaborare un piano decente, riducendosi poi, di fronte al disastro imminente della “seconda ondata”, a imporre soluzioni improvvisate. Ha fustigato gli irriducibili furbetti della movida, chiuso a doppia mandata – nonostante il rispetto dei protocolli di sicurezza – i luoghi dello sport, dello spettacolo e della cultura, abbandonato al suo simulacro digitale e ai colpi di testa dei vari governatori il sistema scolastico. Nessuna strategia di potenziamento della sanità territoriale, nessuna mossa fatta per decongestionare il trasporto pubblico nelle ore di punta, tanto per dirne due. E poi la trovata del divieto di uscita notturna, per di più esteso a prescindere su tutto il territorio nazionale: una misura poliziesca e militare che non ha nessuna ragionevole efficacia nel contenimento dell’epidemia.
Insomma, una sbandierata di solerzia e rigore basata sulla distinzione tra l’essenziale (l’economia) e il superfluo (tutto il resto). La logica dei famigerati DPCM è infatti una sola: salvaguardare produzione e circolazione di merci. Per questo le persone improduttive vengono relegate in casa, mentre chi ancora un lavoro ce l’ha può uscire per lo stretto necessario allo svolgimento della propria mansione. Cosa che in altro contesto si chiama “semilibertà”. Al momento, qui nelle Marche, per ogni esigenza di movimento fuori dal proprio comune bisogna sopportare l’umiliazione dell’autodichiarazione scritta, e in ogni caso si resta alla mercé dello sbirro di turno che può non considerare valida la giustificazione.
Se è necessario adottare precauzioni di distanziamento fisico, in particolare al chiuso, che lo si faccia senza tanto urlare alla “dittatura sanitaria!”, ma basta con la retorica della colpevolizzazione dei comportamenti individuali amplificata a dismisura dai media e con l’accettazione di qualunque sopruso in nome dell’emergenza pandemica. Basta con provvedimenti che sono repressivi più verso le libertà di base che verso il contagio. Non siamo ossessionati dalle mascherine, anzi riteniamo utile indossarle quando necessario, questo non vuol dire mentre si cammina al parco alle sette di mattina. Soprattutto se poco dopo si è costretti – e qui non c’entra la responsabilità del singolo ma l’amministrazione della società – a salire su un autobus già pieno per raggiungere un luogo di lavoro dove l’attenzione alla salute è sempre l’ultimo punto all’ordine del giorno.
Se la società in cui viviamo, bravissima a produrre disastri e molto meno a porvi rimedio, è del tutto inadeguata ad affrontare la pandemia, è d’altra parte tragicamente manifesta l’incapacità da parte “nostra” di cogliere l’opportunità che questa imprevista rottura ha determinato. Qualche risposta, è vero, c’è stata, pensiamo ad esempio a tutte le iniziative di mutuo appoggio e solidarietà dal basso, ma continua a mancare una visione d’insieme che faccia leva sulle crepe aperte e possa imporre la necessità di un deciso cambio di rotta. Ci pare infatti che non abbiamo di fronte solo un’emergenza sanitaria che pure è assolutamente reale, da superare ricorrendo alle forze della medicina – e qui ci sarebbe da discutere molto su come sono stati ridotti e semplificati i concetti di salute e cura – ma stiamo attraversando una crisi globale che dovrebbe mettere alla prova la tenuta di tutto un sistema. E la soluzione – per noi – non sta nel chiudersi in casa e reclamare allo Stato il diritto a un reddito di sopravvivenza, tantomeno nel ritorno alla “normalità” precedente, ma nel saper immaginare e quindi praticare un altro modello di vita.
Il primo lockdown, quello di primavera, era stato più o meno accettato come una novità inevitabile, mentre il secondo, anche se più “morbido”, ha fatto montare la collera di chi subisce con più forza le conseguenze sociali della pandemia. In molti hanno ritirato le bandiere “andrà tutto bene” e dai balconi sono scesi in strada, dove sono esplose le contraddizioni della protesta: sullo stesso selciato gli esclusi di sempre, chi non ha niente da perdere, insieme a quei padroncini che da sempre campano sul lavoro precario e sfruttato, a giovanissimi alle prime esperienze, qualche compagno e vecchi marpioni fascisti. Pur tenendoci bene alla larga di chi nega l’evidenza di questo virus malefico, ci interessa capirne di più e vedere quali spiragli d’azione si potrebbero aprire, per questo abbiamo chiesto ad alcuni/e amici, amiche e compagni/e in giro per l’Italia di raccontarci quel che è successo dalle loro parti. In questo numero potete leggere corrispondenze da Ancona, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Torino e Trieste.
Torniamo poi al degrado della nostra regione. Lo facciamo con un articolo di analisi sui centri di potere e sulle prime malefatte del neonato governo Acquaroli. Ma anche da queste parti, di tanto in tanto, accade qualcosa che ci rincuora, ne è un esempio la manifestazione delle donne che si è svolta a Macerata agli inizi di novembre: ne raccontiamo le motivazioni immediate e profonde.
Con una intervista a Erica Lagalisse, autrice di un libro sul tema, affrontiamo un argomento spinoso: le “teorie della cospirazione” o, se volete, il “complottismo”, in una prospettiva rivoluzionaria. Attenzione: lettura non adatta ai deboli di spirito. In questo mondo strano è esistita anche una scena punk marchigiana dagli anni Settanta in avanti, la raccontiamo con una doppia intervista ad Alessia Masini, ricercatrice in storia, e Carlo Cannella, voce di terribili gruppi punk hardcore come Dictatrista, Stige e Affluente. E ci aggiungiamo un pezzo di un punk marchigiano ante litteram: niente meno che Giacomo Leopardi.
La pandemia ci ha ricondotti all’animalità dell’essere umani e con l’antropologo Stefano Boni parliamo di come la nostra specie – “homo comfort” – viva con sempre più ribrezzo il contatto con lo sporco della natura (e di questi tempi abbondano le generose strofinate di gel igienizzante), mentre Andrea Staid ricorda David Graeber, una figura centrale per il pensiero libertario contemporaneo, morto improvvisamente il 2 settembre a Venezia. A seguire, il giardiniere anarchico Libereso Guglielmi ci trascina nel magico mondo delle erbe e dei fiori commestibili, e con Bertrand Louart torniamo a interrogarci su una vita libera dalla tirannia del capitalismo industriale. Non manca infine la consueta pagina delle recensioni, ma visto che di libri da leggere ne sono usciti parecchi e lo spazio di queste pagine non è infinito, inauguriamo anche una rubrica di brevi segnalazioni editoriali.
Un’ultima cosa: insieme a questo numero abbiamo pubblicato un piccolo libro, in occasione del cinquantenario del naufragio del peschereccio Rodi e della conseguente rivolta di San Benedetto del Tronto (dicembre 1970-2020). È un auspicio affinché tutte le terre, anche quelle più assuefatte alla pace sociale, possano ribellarsi alle ingiustizie, oggi come allora.
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