Da “La guerra delle foreste”, Tabor edizioni [QUI IL PDF]
Le vili creature dei boschi vivono senza legge, non obbediscono e non rispondono a nessuno, perché ignorano ogni legame di dipendenza.
John Aubrey, storico inglese del XVII secolo
Boschi e foreste rappresentano da sempre l’emblema del selvatico, del misterioso, dell’ingovernabile, sede di tutto ciò che è altro, diverso e nemico rispetto al consorzio civile. Il bosco, a meno che non gli si faccia assaggiare la razionalità di una ruspa, rimane estraneo alla modernità e alle sue leggi, irrimediabilmente ostile alla rapidità dei flussi, allo sfruttamento estensivo, alla concentrazione umana. Presi da questi pensieri, pubblichiamo il capitolo conclusivo di “La guerra delle foreste”, un agile libretto della casa editrice valsusina Tabor, invitandovi a dare un’occhiata a tutto il suo bel catalogo (www.edizionitabor.it). La storia parte dalle foreste e dai terreni incolti su cui si svolge la lotta dei Diggers (Zappatori) nell’Inghilterra del Seicento, una lotta di contadini poveri che occupano le terre sottraendole alle “enclosures” (recinzioni), per coltivarle e viverle insieme in un progetto comunitario ed egualitario che inevitabilmente si scontra con la nascente società borghese e capitalistica. Nel solco della tradizione religiosa millenarista, continuando a rifiutare autorità e divinità estranee e predatrici, i Diggers vogliono portare il paradiso sulla terra, raccogliendo il testimone delle sommosse contadine del XIII e XIV secolo, del Movimento del libero spirito e della ribellione anabattista di Münster del 1534. Restituire risorse alla collettività è una lotta di ieri e di oggi, così come sottrarre la vita umana all’impero delle merci: l’inciviltà della “foresta”, se sappiamo ascoltarla, ha ancora qualcosa da dirci.
La foresta è, da sempre, un dominio incantato. Che sia quello di Merlino, uomo dei boschi della leggenda arturiana, o quello di Robin Hood, il territorio della foresta è un grande serbatoio di sogni. Il popolo degli alberi vi conduce una vita oscura e misteriosa, e il melo, albero magico di Merlino, o la quercia pluricentenaria della foresta di Sherwood, rifugio di Robin Hood e dei suoi compagni, affondano le loro radici nell’inconscio dell’uomo medioevale.
Ma tuttora la foresta continua a proiettare l’ombra della sua inquietante alterità sul nostro immaginario. È un luogo in cui l’umano non detta legge, in cui è facile perdersi e abbandonare la propria umanità. Le fiabe della nostra infanzia, del resto, non raccontano nulla di diverso. La foresta è il territorio in cui si perdono Pollicino e i suoi fratelli, ormai alla mercé dell’altro, dell’umano regredito allo stato bestiale; o ancora Cappuccetto rosso e il lupo che la aspetta ai margini del bosco.
Parecchi romanzi recenti riprendono – trasformandola e attualizzandola – l’ossessione della “selva oscura”. Stephen King, ad esempio, racconta la storia di una bambina che si perde nella foresta e viene perseguitata da una forza ostile[i]. La foresta ha qui un doppio volto: luogo inquietante e pieno di pericoli ma anche territorio che può ammansirsi e da cui può sorgere il meraviglioso. Il giornalista Vatanen, protagonista di L’anno della lepre[ii], abbandona la propria vita umana razionale (fatta di automobile, lavoro, moglie e figli) per inoltrarsi nel bosco all’inseguimento della lepre che ha investito con l’auto.
O, ancora, nel romanzo La fune[iii], gli abitanti di un villaggio situato sul limitare di un’immensa foresta un mattino scoprono una fune che vi si inoltra. Seguendola lasceranno il loro villaggio per sprofondare nell’ignoto. La foresta è questo territorio che spalanca un altrove talvolta minaccioso. È l’animale, è l’albero, è l’altro da sé.
Anche nelle nostre edizioni, Tabor, con il fumetto Fondobosco[iv], abbiamo intrapreso un’avventura analoga: quella di Pinot, boscaiolo delle Alpi che si trova catapultato in un allucinante e apocalittico viaggio nel selvatico (e nell’inconscio) innescato dagli spiriti dei larici oltraggiati dall’arroganza della civiltà.
Il cristianesimo farà una gran fatica a liberarsi dalle leggende legate alle foreste, dove al riparo dei grandi alberi si nascondono le streghe, i maghi o i druidi, trovandovi il loro rifugio naturale. Un’arcaica civiltà vi si è ritirata, quella della Dea madre e del ciclico ritorno delle stagioni, quella dell’accordo tra umano e animale e tra il principio maschile e femminile.
I poveri che vivono nelle foreste all’epoca della rivoluzione inglese del 1649 conservano un certo numero di pratiche e di credenze provenienti da tale civiltà, in particolare il ricorso all’uso delle erbe e alla magia.
Questi miti e saperi agresti sopravvivranno ancora a lungo, e gli uomini e le donne dei boschi potranno per lungo tempo ancora nascondervisi con i propri intrighi, le proprie trame e le proprie esistenze, agli occhi dei potenti potenzialmente sediziose oltre che dissolute.
Possiamo rintracciarne una traccia anche in diversi film. Tra questi, La fiancée du pirate[v], in cui la protagonista vive in una capanna nel bosco vicino al villaggio e grazie ai suoi poteri si vendicherà degli abitanti del paese, colpevoli di aver maltrattato lei e sua madre. Anche qui, la vita al margine, nella foresta, dona alla donna una forza che proviene da un mondo arcaico, simboleggiato dal suo animale da compagnia, il caprone, e dal suo rapporto con la natura e la sessualità.
Gli alberi sono anche i testimoni della storia e la loro tranquilla opacità ci lascia immaginare i tempi antichi in cui loro erano già lì. Nel film Vertigo[vi] di Hitchcock, il momento in cui i due personaggi principali si ritrovano in una foresta di enormi sequoie e risalgono i tempi osservando i cerchi concentrici di un tronco è una delle scene più enigmatiche del cinema. La mano guantata della protagonista indica due punti sul tronco mentre dice: «Qui sono nata… e qui sono morta». L’albero rappresenta qui il tempo che passa, testimone del tempo perduto.
Anche nel cinema più recente, e nelle serie tv, che più di ogni altro genere contribuiscono oggi alla costruzione dell’immaginario collettivo, la foresta continua a rivestire il suo ruolo di “altro” contrapposto all’umano e alla sua razionalità: ad esempio, tra le tante, Zone Bianche (2016), serie poliziesca in cui è il bosco, con le forze arcaiche che vi risiedono, il vero, ambiguo, protagonista nella catena di omicidi e sparizioni che colpisce il villaggio di Villefranche.
La foresta e le sue creature popolano il nostro immaginario, e camminando tra i suoi alberi, nelle Cévennes come nelle Alpi o nei Pirenei, non ci sorprenderemo di scorgere con la coda dell’occhio il guizzo di una fuga precipitosa, lo scatto furtivo di un abitante dei boschi, di un troll o di un folletto, che si nasconde da noi, dai nostri tracciati e… dai nostri bulldozer.
La foresta da vivere emerge come tema chiave nei testi di Winstanley [principale portavoce del movimento comunitario dei Diggers nell’Inghilterra del Seicento]: essa servirà ai «carpentieri, falegnami, tornitori, costruttori di aratri, liutai e costruttori di altri strumenti musicali, e tutti coloro che lavorano il legno». È un bosco da usare quello descritto, ma a differenza dello sfruttamento capitalista, si tratta di un uso collettivo e finalizzato al bene comune.
L’aumento demografico portò con sé una crescente pressione su foreste e terre demaniali da parte degli occupanti (squatters) che vi costruivano le loro capanne. La consuetudine garantiva loro il precario diritto di installarsi a meno di un miglio dagli insediamenti industriali. Altri costruivano le loro baracche illegalmente, e la lontananza dai poteri garantiva loro una maggiore tranquillità. Per lo più si trattava di artigiani (forgiatori, fabbri ferrai, arrotini, tessitori…), ma anche di banditi, commedianti, venditori ambulanti, predicatori e ogni sorta di nomadi e fuggiaschi.
Il bosco rappresenta quindi un rifugio per i proscritti e per i poveri, oltre che una riserva di ispirazione per i poeti. Il buio della foresta stende un insopportabile cono d’ombra sulle carte di chi vorrebbe il controllo totale del territorio. Perciò è da sempre tenuta in grande sospetto dai poteri d’ogni epoca, nel solco di «un’ostilità radicale, di origine religiosa, tra le istituzioni umane e le foreste circostanti»[vii].
Beninteso, la storia cui abbiamo accennato non è affatto conclusa, in Inghilterra come altrove. Di fronte all’emergenza posta dalle distruzioni del capitalismo globalizzato, essa non fa che acquisire importanza. E il legame di filiazione con gli uomini e gli eventi qui citati, malgrado più di tre secoli di distanza, si mostra in tutta la sua evidenza. Dal Messico al Brasile, dall’India al continente africano, fino a contrade a noi più prossime, nei territori rurali di un’Europa forse non pacificata come appare, la guerra dei boschi, delle terre e delle risorse è più attuale che mai.
La sollevazione degli Zappatori è destinata a risorgere ancora e ancora…
La foresta – ne siamo certi – non ha ancora detto la sua ultima parola.
Noi, piuttosto, siamo ancora
capaci di sentirla?
[i] Stephen King, La bambina che amava Tom Gordon, Sperling & Kupfer, 1999.
[ii] Arto Paasilinna, L’anno della lepre, Iperborea, 1994.
[iii] Stefan aus dem Siepen, La fune, Neri Pozza, 2013.
[iv] Marco Bailone, Fondobosco, Tabor, 2014.
[v] La fiancée du pirate, traduzione italiana: Alla bella Serafina piaceva far l’amore sera e mattina, regia di Nelly Kaplan, 1969.
[vi] Vertigo, traduzione italiana: La donna che visse due volte, regia di Alfred Hitchcock, 1958.
[vii] Robert Harrison, Foreste. L’ombra della civiltà, Garzanti, 1992.