“Non è di una domenica in campagna che abbiamo bisogno, ma di una vita meno artificiale“.
Il nome di Bernard Charbonneau (1910-1996) è frequentemente associato a quello del più noto Jacques Ellul: entrambi sono considerati precursori dell’ecologia politica e del pensiero della decrescita. Originari di Bordeaux, amici, quasi coetanei, hanno condiviso per oltre mezzo secolo molte inquietudini, fatta eccezione per la fede religiosa: protestante Ellul, agnostico Charbonneau. Ellul, che riconosceva di dover a Charbonneau molte sue ispirazioni – “Charbonneau mi ha insegnato a pensare e mi ha insegnato ad essere un uomo libero” – lo presentava come “il primo a superare la critica del macchinismo e dell’industria per accedere a una visione globale della tecnica come potere strutturale della società moderna”[1]. Charbonneau è infatti tra i primi a interrogarsi sulle profonde trasformazioni introdotte dal progresso tecnico, su come l’aumento della produzione materiale si accompagni al venir meno della libertà individuale. Ne desume la necessità di arrestare la crescita economica, che ormai diventata fine a se stessa non è compatibile con la salute dell’uomo e della terra.
Negli anni Trenta è per alcune stagioni vicino agli ambienti di Esprit e di Ordre nouveau (che non ha niente a che vedere con l’omonimo movimento di estrema destra del dopoguerra) e partecipa alla corrente di pensiero detta del “personalismo”, che intendeva rompere con le ideologie dominanti del secolo cercando una via alternativa tanto al capitalismo liberale quanto al comunismo. Se ne distacca quando capisce di non riuscire a far accogliere in pieno la sua analisi critica della società tecnoscientifica e l’urgenza di suscitare un’azione collettiva per riorientare la società contro il culto della tecnica, della produzione, dello Stato.
Dopo essere stato marginalizzato e misconosciuto nel dopoguerra dominato anche a sinistra dalla fascinazione per il progresso e l’espansione economica, Charbonneau ha esercitato una discreta influenza nel post-Sessantotto, con l’emergere delle lotte ecologiste. Lotte che non ha solo teorizzato ma alle quali ha partecipato in prima persona, in particolare all’interno del Comitato di difesa della costa aquitana. Nella seconda parte della sua vita si ritira con la famiglia in un paesino nei pressi di Pau, ai piedi dei Pirenei, continuando a insegnare storia e geografia nei licei della provincia sud-ovest: la sua eredità sta venendo oggi sempre più riscoperta, pur restando ancora quasi del tutto sconosciuta in Italia.
Il merito principale di Charbonneau è aver sottoposto a una critica complessiva la moderna società industriale – cioè l’organizzazione sociale fondata sul lavoro coatto e sulla produzione di merci – denunciando il mito del progresso in quanto illusorio e distruttivo. Quella che lui chiama la Grande Mue è la grande mutazione che stiamo vivendo, un concetto più ampio di quello di “rivoluzione industriale”: l’epoca in cui la tecnoscienza ha rimodellato il pianeta a sua immagine e somiglianza e, con esso, ha ridisegnato radicalmente l’essere umano, il suo stare al mondo e la sua mentalità. Si tratta di una mutazione epocale, paragonabile per la sua portata soltanto alla trasformazione prodotta dall’introduzione delle tecniche agricole nel neolitico, che non riguarda solo l’economia o qualche singolo aspetto della società, ma l’intera condizione umana.
A tutto questo Charbonneau oppone un progetto rivoluzionario a partire dalla vita quotidiana, alla cui base siano le comunità che abitano i territori, che riconducono la produzione nelle proprie mani, che capovolgono le pratiche e l’immaginario coltivando rapporti umani contrari a quelli della società tecnoindustriale. Questa rivoluzione deve passare anche, e soprattutto, attraverso un nuovo rapporto con la natura, intendendo con questo termine ciò che sfugge ai tentacoli del sistema industriale, che ne resta ai margini e si sottrae alle sue costrizioni. Alla natura è strettamente legata la libertà, un concetto che deve scendere dall’ideale filosofico per farsi materia quotidiana: “la libertà è essere libero… non essere definito come tale”[2], ma essere liberi non è possibile se non scardinando il sistema tecnico che toglie responsabilità e potere decisionale al soggetto umano. La natura rappresenta quindi uno spazio di libertà per l’individuo e di autonomia per le comunità: “una manifestazione di anarchismo concreto”.
Nella società industriale la natura è ovunque sottomessa, ma allo stesso tempo viene anche ricostruita artificialmente a uso e consumo di un’umanità che ha completamente smarrito ogni profondo legame con essa. L’ambiente naturale diventa quindi sia un serbatoio di materie prime per le esigenze dell’industria, sia la meta dei fine settimana per un tempo che è chiamato “libero” solo in funzione di quello occupato dalla produzione. Alla fine, tutti possono oggi dichiararsi “amanti della natura”, intendendo il più delle volte un suo surrogato, ovvero il parco naturale, il percorso turistico di montagna, lo spazio verde urbano o il documentario del National Geographic.
Charbonneau di fronte a tutto questo, ponendo già negli anni Trenta le basi di una nuova ecologia politica, afferma che il “sentimento della natura” – espressione ripresa dal geografo anarchico Élisée Reclus – non è solo un capriccio letterario, ma una “forza rivoluzionaria”. Le sentiment de la nature, force révolutionnaire è il titolo di un suo lungo articolo del 1937. Tanto più la società incatena l’uomo con i suoi imperativi di produzione e consumo, tanto più il “sentimento della natura” è una reazione a queste costrizioni: una viva ricerca di libertà. In questo senso non manca in Charbonneau anche un recupero della dimensione spirituale dell’essere umano e del suo stare su questa Terra, che equilibri la dimensione materiale dell’esistenza. L’emozione che suscita il contatto diretto con la natura – e anche quell’alleanza con la natura che sta alla base dell’abitare e vivere un territorio – è un grande stimolo alla volontà di cambiare il mondo per edificare una società ecologista e libertaria.
Qui di seguito proponiamo la traduzione di alcuni estratti presi da varie opere di Charbonneau.
Il sentimento della natura, forza rivoluzionaria, 1937
Per tutti coloro che hanno ancora un genuino desiderio di vivere, che non vegetano nello stomaco del mostro sociale, non c’è che una soluzione: attendere la fine del lavoro. Vivere per mesi una vita rallentata. Per l’adulto, il termine “vacanze” finisce per essere significativo come lo è per uno studente recluso in un collegio, proprio perché la società attuale è chiusa come un collegio. Per molti giovani, al di là delle ipocrisie filosofiche, il viaggio in montagna o al mare rappresenta il solo momento di vita possibile. Invano cercano di persuaderci che il tempo libero è divertimento; piuttosto, è il lavoro artificiale imposto dall’attuale società che merita di essere trattato con ironia. Il nostro tempo libero è un affare secondario? In realtà è il solo momento in cui possiamo vivere senza secondi fini, con la camicia sbottonata, giocando, conoscendo e assaporando la gioia di placare la nostra fame e la nostra sete.
Per i giovani di oggi, il sentimento della natura non è la vaga emozione di fronte a uno spettacolo, è una sete che nasce dal desiderio di vivere, un sentimento tragico, antagonista alla vita quotidiana che conduciamo; se resta inespresso è solo perché alberga nel più profondo di noi stessi. Ma è ora il momento in cui questo conflitto ha raggiunto una tale violenza che preme per mostrarsi alla nostra coscienza. È strano che la montagna sia per alcuni l’unica salvezza, è strano che non possiamo vivere davvero se non quando, zaino in spalla, guadagniamo l’ingresso di una valle; perché non possiamo vivere se non fuggendo il nostro lavoro, la nostra famiglia, la nostra patria? Fuggiamo senza voltarci indietro: la montagna, in altri tempi terra di rifugio per i popoli vinti, è oggi l’asilo di coloro che non trovano pace se non quando la sua ombra cala sui giorni feroci delle città. Scappiamo anche da noi stessi, ma dal momento che il nostro io non è che un io sociale, stiamo scappando dalla nostra società civilizzata.
Finché ci saranno governi ben organizzati, i ministri della polizia faranno bene a diffidare dei giovani che escono da soli per percorrere sentieri isolati: sono certamente spiriti malvagi, molto più di certi senatori comunisti. “Ma sono così carini, hanno idee generose e vaghe, non fanno politica” – senza dubbio, ma è sempre possibile che a lungo termine uno spirito malvagio finisca per prendere coscienza delle sue esigenze. I governi diffidino di questi giovani entusiasti, posseduti dallo spirito di giustizia, dal sentimento di miseria comune; diffidino anche dell’amore autentico per la natura perché se un giorno, abbattendo brutalmente le sottili costruzioni della politica, un movimento si opporrà alla più raffinata delle civiltà, questo sentimento sarà la sua forza essenziale.
Possiamo dire che fino alla metà del XIX secolo, non avendo l’umanità vissuto troppo lontano dalla natura, il sentimento della natura non ha mai avuto grande considerazione nella vita sociale. Questo sentimento si è sviluppato nella misura in cui un paese o una classe hanno visto la loro vita trasformata dalla civiltà industriale, manifestandosi con più forza tra le classi ricche e in quei paesi dove hanno maggiormente inciso le conseguenze del progresso tecnico: Inghilterra, Stati Uniti, Germania, Francia. In questi paesi la classe “naturista” è stata per prima la borghesia poi, nell’ordine, gli impiegati e gli operai; ai Touring club borghesi hanno risposto più tardi i Naturfreunde (gli Amici della natura) socialisti. […] Il sentimento della natura ha inizialmente penetrato la classe borghese, con manifestazioni che possono riassumersi in una parola: turismo. […] La borghesia non sfugge al suo destino, che è di vivere in maniera sempre più artificiale anche quando cerca di ritornare alla natura. […] Il sentimento della natura, per come si esprime comunemente nella borghesia, ha subìto una doppia deviazione: materialista e idealista. Il borghese torna alla natura per riposarsi o per vedere un bello spettacolo: la natura è per lui un giardino pubblico in mezzo a terreni occupati da fabbriche e campi. La considera una parentesi che non ha nulla a che vedere con la sua vita di tutti i giorni: amicizie delle vacanze, entusiasmi delle vacanze, amori delle vacanze; per due mesi il borghese s’illude di amare, di affezionarsi, poi, a settembre, come dice M. Martin “chiude le valigie e ritorna agli affari seri”.
Le jardin de Babylone, 1969
La seconda rivoluzione industriale, quella degli idrocarburi e della chimica, si sta imponendo nelle campagne europee. La macchina va troppo veloce per il pensiero: il suo utilizzo precede sempre la coscienza dei suoi effetti. La motosega non lascia più il tempo di riflettere come l’ascia. Se si può abbattere una quercia in qualche minuto, ci vuole comunque un secolo per farla crescere. Il trattore non è più appannaggio dei grandi proprietari terrieri, i prodotti chimici diminuiscono il lavoro del contadino, ma visto che bisogna pagarli, alla fine ci si ritrova comunque a lavorare. La piccola impresa agricola non è più redditizia. Il progresso tecnico significa concentrazione, la meccanizzazione genera grandi aziende. Il ruscello irriga terreni saturi di chimica e basta qualche pompa per prosciugarlo. Cos’è diventata la vita segreta delle valli? Il lavoro diventa veramente lavoro, cioè lavoro di fabbrica. Tra non molto i contadini reclameranno il loro diritto di passare le vacanze in campagna.
La rivoluzione agricola ha raso al suolo la campagna francese, lasciando solo una distesa, polverosa o fangosa, dove il trattore, a perdita d’occhio, traccia la sua linea. Indifferente ai rilievi, al passato, va. Se il trattore ti consente di lavorare tre volte più velocemente, devi lavorare tre volte di più per pagarlo.
Tutta la vita umana è espressione della natura, nulla di essenziale può essere aggiunto ad essa: nel migliore dei casi, l’artificio può semplicemente camuffare un vuoto. Il cielo è blu sulla nostra testa e l’acqua chiara scorre tra le nostre dita; il nostro cuore batte e i nostri occhi sono aperti. Cos’altro potremmo chiedere? Tutto quel che c’è di più bello e più forte, dal più semplice al più sublime, non l’ha inventato nessuno: le nuove invenzioni, nel migliore dei casi, sono solo nuovi pretesti per vecchie gioie. Bevi in una giornata assetata e mangia al momento della fame, tuffati nell’onda e prendi un pesce, scherza con l’amico o bacia gli occhi dell’amica. Tutto ciò che possiamo acquisire è solo un’aggiunta, l’essenziale ci è stato dato il giorno della nostra nascita.
Gli uomini si sono radunati nelle città per sfuggire alle forze della natura. E ci sono riusciti fin troppo bene; l’abitante della città moderna tende a essere completamente inglobato in un ambiente artificiale. Non solo per via della folla, ma perché tutto ciò che lo circonda è fabbricato dall’uomo, per l’utilità umana. In mezzo alle case, gli uomini hanno riportato la terra e costruito uno scenario; gli avventori dei giardini pubblici sono troppo numerosi: guardare ma non toccare. Il costo delle megalopoli aumenta ancora di più delle loro dimensioni. Bisogna far arrivare più energia, più acqua. Bisogna assicurare il trasporto dei cittadini, sbarazzarsi dei cadaveri e di altri scarti. Riciclando l’acqua delle fogne, la città è ridotta a bere la propria urina. Propongo di stimare in franchi il metro quadrato o il metro cubo d’aria pura, come i kilowatt. Il XIX secolo aveva le sue galere industriali, il nostro ha l’inferno quotidiano dei trasporti. La megalopoli non può essere salvata che dal sacrificio, ogni giorno più spinto, delle sue libertà.
Se il paesaggio rurale è il risultato di un matrimonio tra terra e uomo, la città moderna è una costruzione in cui le ragioni umane – a volte impazzite – hanno vinto.
Se non affrontiamo gli effetti sulla natura e sull’uomo della civilizzazione industriale e urbana dobbiamo considerare probabile la fine della natura con, per qualche tempo, una confortevole sopravvivenza nella spazzatura: solida, liquida o sonora. E se qualche incidente sconvolgerà la grande macchina, non saranno più solamente i pesci a marcire all’aria aperta, ma gli uomini fisicamente e soprattutto spiritualmente asfissiati.
La natura resta l’indispensabile superfluo della società industriale. I mass media diffondono quotidianamente il mito del Mare, della Montagna o della Neve. Il turista non è che un voyeur, il suo viaggio si riduce al monumento o al sito classificato d’interesse. Ovunque l’artificio cerca di restituirci la natura. Isolato dalla natura nella sua auto, il turista guarda con occhio sempre più indifferente il piatto documentario che passa dietro al finestrino. Ammirare i ghiacciai attraverso le finestre di un palazzo non impedisce di lamentarsi se il riscaldamento è troppo basso. Un turista non vive, viaggia; appena mette piede a terra, il clacson del pullman lo richiama all’ordine; il turismo e la vita autentica si mescolano tra loro come l’olio fa con l’acqua. Con la società capitalistica il turismo è diventato un’industria pesante. Le agenzie turistiche fabbricano in serie prodotti standard, il cui valore è quotato in borsa. Non ci sarà più natura in Francia, ma autostrade che condurranno da fabbrica a fabbrica – chimica o turistica.
Notre table rase, 1971
Non dobbiamo difendere la natura in sé, ma la natura abitata, il diritto alla campagna che implica dei duri compiti. I naturalisti furono i primi a scoprire l’ecologia. Ma se ci atteniamo alla difesa di biotopi e specie, trascuriamo l’essenziale del problema, che è umano, e rimaniamo soddisfatti di riforme ad hoc. Alla fine la natura sarà salvata da qualche riserva – naturale perché protetta dalla polizia – dove solo l’ambientalista certificato potrà entrare e anzi non vedrà di cattivo occhio i terreni militari chiusi al pubblico. Per lui, più un territorio è inabitabile, più è interessante: è per questo che difende le zone inospitali più delle campagne. Come il protettore dei siti d’interesse, il naturalista vede solo il suo lavoro e per salvare la natura è pronto a privarne l’uomo. Eppure è il primo a sapere che l’uomo non vive dello spettacolo della natura e che rifiutargli l’acqua e il pesce è ucciderlo.
Non credo che eviteremo lo scontro con la società attuale, anche se sarebbe bello se scomparisse senza lotte. La rivoluzione verde (o ecologica, se preferite: non mi interessa la parola, è la cosa che conta per me) mette in discussione, molto più del socialismo, i principi e gli interessi della società borghese in cui viviamo. Ci saranno da combattere niente meno che Dio e il portafoglio: la Chiesa e il supermercato. Eviteremo la violenza, la guerra? Chi ama la campagna ha di meglio da fare che giocare al piccolo soldato, ma temo che i rapporti tra il movimento ecologista e la nostra società rimarranno pacifici solo nella misura in cui il movimento resterà confinato nel recinto in cui è stato parcheggiato. Non vedo come potrà evitare atti di sabotaggio punibili dalla legge, che in questo caso si applicherà con più rigore rispetto a quando si tratta di inquinamento dei fiumi. È probabilmente quando vedremo versare il suo sangue che sapremo che la rivoluzione del 2000 è nata.
Le Système et le chaos. Critique du développement exponentiel, 1973
L’azione della tecnica è automatica, precede la riflessione. Il suo ritmo troppo veloce eccede la previsione; quando crediamo di coglierne gli effetti, è già oltre. […] L’uomo dunque non è più il fine di questa evoluzione che lo supera, ma soltanto la sua provvisoria giustificazione; la macchina non è più il mezzo di cui una società si serve, ma la potenza che la modella: i cambiamenti tecnici determinano trasformazioni economiche che provocano a loro volta trasformazioni sociali: nel nostro mondo ossessionato dall’efficacia, queste seguono e non precedono. La tecnica allora fa la storia, perché domina le forze naturali e le forze spirituali si rifiutano di controllarla. Le nostre rivoluzioni non modificano più le condizioni sociali e non riescono a stare al passo di quelle generate dalle tecniche. La macchina a vapore ha fatto di più per cambiare la società che non i principi del 1789, se la libertà non si è stabilita sulla terra, la fabbrica sì.
La società industriale vede bene il deficit delle società sottosviluppate o del passato, ma ignora il suo; anche perché giudica alla luce dei propri criteri. Per percepire i costi naturali e umani, bisogna aver scelto la natura e l’uomo.
La ragion d’essere e il difetto di ogni apparato è di sostituirsi all’uomo fisico o spirituale. Ogni meccanizzazione si paga con una perdita di coscienza; alcuni ne approfitteranno per porla altrove, ma non è questo che succede di solito. Guidare bene un’auto vuol dire non pensarci più e agire automaticamente, la riflessione è troppo lenta per il ritmo della macchina. Così il suo automatismo conquista l’uomo che talvolta trova la pace in questa incoscienza; se certi operai soffrono alla catena di montaggio, molti ci stanno bene, nella gradevole consapevolezza del loro vuoto interiore. Forse il progresso dell’organizzazione risponde al segreto desiderio dell’uomo: fabbricare l’automa che un giorno si incaricherà di pensare e vivere al suo posto.
Chronique de l’an deux mille, 1974
Si è visto che la crescita esponenziale mentre risolveva problemi ne poneva di nuovi; aveva costi di ogni genere: economici, ecologici, sociali. Si è scoperto che ogni azione è ambigua; la produzione può essere anche chiamata distruzione della materia prima: la produzione di legno rade il bosco. La stessa cosa si può dire in due modi. La civiltà dell’igiene è allo stesso tempo una civiltà della spazzatura. […] Se non ci si interroga più sui costi delle proprie azioni, allora le conseguenze saranno per lo più negative: potremmo allungare all’infinito questo catalogo di produzioni distruttive di una società che si rifiuta di mettere in discussione le conseguenze dell’economia. Non dobbiamo dimenticare che si tratta di una crescita esponenziale: la curva irresistibilmente decolla e si raddrizza, e tende verticalmente, cioè all’assoluto. Ma lo spazio-tempo della Terra è finito… Più andiamo, più pagheremo caro vantaggi che s’assottigliano. All’inizio i benefici della crescita sono evidenti: con pochi milioni abbiamo potuto guadagnare mesi sulla traversata atlantica, ma per guadagnare tre ore abbiamo investito miliardi. Così come le centrali atomiche, costeranno care. E non sarà solo in dollari, ma in un’organizzazione raffinata, in una disciplina implacabile: in libertà.
Le Feu vert, autocritique du mouvement écologiste, 1980
Un bel giorno, il governo sarà costretto a praticare l’ecologia. Senza farci illusioni possiamo pensare che, a meno di una catastrofe, il cambiamento ecologico non sarà dovuto a un’opposizione minoritaria e sprovvista di mezzi, ma alla borghesia dominante, il giorno in cui non potrà fare diversamente. Saranno i vari responsabili della rovina della terra che organizzeranno il salvataggio di quel poco che rimane e che, dopo l’abbondanza, gestiranno la penuria e la sopravvivenza. Poiché queste persone non hanno pregiudizi, credono tanto nello sviluppo quanto nell’ecologia: in realtà credono solo nel potere, facendo ciò che è inevitabile.
L’amante della natura è perfettamente integrabile nel sistema industriale come gestore delle riserve naturali o dei parchi nazionali, che fungono da alibi per le necessità industriali, immobiliari, fondiarie e turistiche, nella proporzione di un’allodola per un cavallo. In questi spazi-reliquia, amministrativamente congelati, il naturalista può soddisfare la sua passione per la natura intatta come l’etnologo quella per le società tribali chiuse in altre riserve e musei. Ma tra la natura provvisoriamente riservata e la cultura del cemento e dell’asfalto, quello di cui gli individui saranno privati è la campagna in cui l’agricoltore vive e preserva la terra per tutti. Non essendo né bestia né angelo, né orso né ecologista incaricato di studiarlo e ospitato come tale nel parco nazionale, posso solo rifiutare una società che mi proibisce di vivere la mia patria: la terra.
La chiave del problema non è nella natura o nell’uomo, ma nel loro rapporto, soprattutto in uno spazio profondamente umanizzato come l’Europa delle città e delle campagne. L’ecologismo ha un solo modo per risolvere la contraddizione tra natura e uomo: eliminare quest’ultimo. […] L’amante della natura ha una sola soluzione da offrire all’uomo: la riserva naturale estesa su tutto il pianeta. E, per finire, la partenza per Saturno o il suicidio dell’ultimo elemento perturbatore: il direttore di questo museo. […] Ma la coscienza attiva della natura è una questione di morale o, piuttosto, di etica: è un risveglio dello spirito. La protezione della natura affonda più nella libertà che nella materia.
Producendo un superfluo che può essere aumentato indefinitamente, l’industria del tempo libero è uno dei motori dello sviluppo e, poiché la natura è il suo oggetto principale, è la causa numero uno della sua devastazione. Solo la guerra può sprecare ancora più energia e spazio. Questo svago standardizzato e concentrato, perché organizzato, non ha motivo di essere se non per i profitti degli operatori turistici. La sua giustificazione è di fornire a tutti ciò che in realtà distrugge: natura e libertà.
Bibliografia su Bernard Charbonneau
Bernard Charbonneau: une vie entière à dénoncer la grande imposture, sous la direction de Jacques Prades, Ramonville, Érès, 1997.
Daniel Cérézuelle, Écologie et liberté: Bernard Charbonneau, précurseur de l’écologie politique, Parigi, Parangon, 2006.
Bernard Charbonneau: habiter la Terre. Actes du colloque du 2-4 mai 2011, Université de Pau et des pays de l’Adour, 2012.
Daniel Cérézuelle, Bernard Charbonneau, in 20 penseurs vraiment critiques, coordonné par Cédric Biagini, Guillaume Carnino et Patrick Marcolini, Montreuil, L’Échappée, 2013.
Bernard Charbonneau, Jacques Ellul, Nous sommes des révolutionnaires malgré nous: textes pionniers de l’écologie politique, Pargi, Seuil, 2014.
Bernard Charbonneau & Jacques Ellul: deux libertaires gascons unis par une pensée commune, présentation et choix d’extraits par Jean Bernard-Maugiron, [Bordeaux], Les Amis de Bartleby, 2017.
Daniel Cérézuelle, Bernard Charbonneau ou La critique du développement exponentiel, Lione, Le Passager clandestin, 2018.
https://lagrandemue.wordpress.com
(sito dedicato al pensiero di B. Charbonneau).
[1] Le due citazioni: Patrick Chastenet, Entretiens avec Jacques Ellul, Parigi, La Table Ronde, 1994; Jacques Ellul, Une introduction à la pensée de Bernard Charbonneau, in “Ouvertures. Cahiers du Sud-Ouest”, n. 7, 1985, p. 41.
[2] B. Charbonneau, L’État, (1949); nuova edizione: Parigi, R&N, 2020.