Recensione di: Luc Boltanski e Arnaud Esquerre, Arricchimento, traduzione di Andre de Ritis, il Mulino, 2019, pp. 592, 38 euro (prima ed. Gallimard, Paris, 2017)
Di A. Soto
Un libro di difficile lettura, ma importante, da studiare e a mio avviso discutere, perché se è vero, come è vero, che l’accumulazione capitalista continua e si intensifica, essa si basa su nuovi dispositivi economici e su forme di valorizzazione della merce che hanno assunto dall’ultimo quarto del ventesimo secolo un’importanza inedita. Per valorizzazione della merce gli autori intendono la trasformazione in capitale: la descrivono con acume, unendo, contro ogni ortodossia disciplinare, le scienze sociali, sulla scia degli insegnamenti di due grandi, Fernand Braudel e Giovanni Arrighi.
Partiamo da questo assunto: non siamo in una società post-industriale e lo si capisce dal fatto che non abbiamo mai avuto così tanto oggetti industriali. Ma questi non sono più prodotti in Occidente. L’Europa è un continente segnato dalla deindustrializzazione che ha preso forma nei dieci anni successivi al Maggio ’68 e che ha rappresentato sia una risposta alla crisi che ha colpito il capitalismo a partire dalla fine degli anni Sessanta (con un calo del tasso di rendimento del capitale superiore al 40% tra il 1965 e il 1973), sia il tentativo, riuscito, di sbarazzarsi di una classe operaia particolarmente combattiva.
Alla delocalizzazione industriale si sono affiancati nuovi modi di creare valore, dipendenti gli uni dagli altri, che non implicano più la produzione di beni, ma coinvolgono settori come l’arte, la cultura, il territorio, l’enogastronomia, il turismo.
In Europa, ma qui l’attenzione degli autori è in particolare rivolta alla Francia e in secondo luogo all’Italia – veri e propri “giacimenti culturali” – si è passati da un’economia incentrata sulla produzione industriale a un’economia dell’arricchimento, termine con cui sono definite le operazioni, o i processi, che accrescono il valore della merce e ne aumentano il prezzo.
La merce non è oggi solo una forma standard, com’è stata per lo più nella società industriale a partire dal XIX secolo: agli oggetti “in serie” si sono affiancati oggetti particolari, unici, diversi, di lusso, o per lo meno così narrati e quindi valorizzati. Un oggetto di valore è tale in quanto differente dagli altri (è speciale, differente, raro o di pregio), magari inserito in una collezione (di vini, orologi, occhiali, coltelli, gioielli, ecc.), o semplicemente “di tendenza”, in quanto legato a un marchio “storico”.
Fernand Braudel analizzava come l’estrazione di plusvalore si ottenesse non tanto e non solo dal lavoro, secondo l’insegnamento di Marx, ma dallo spostamento delle merci (plusvalore di mercato)[1]. Boltanski ed Esquerre allargano il concetto di spostamento dall’ambito geografico a quello di status: un oggetto acquisisce valore quando passa dall’essere un oggetto standard all’essere un oggetto speciale, parte di una collezione o “di tendenza”. Un esempio: l’orologio x prodotto in serie ha un determinato valore, e quindi un prezzo; ma se fa parte di una collezione, o se è stato posseduto da qualche personaggio importante, se è in qualche modo differente – ha un prezzo maggiore. Questa forma di creazione di ricchezza non produce nuovi oggetti, ma utilizza oggetti già esistenti, fino a poco prima trattati come rifiuti, ignorati o abbandonati nelle cantine e ora messi a valore da un capitalismo integrale, che agisce in maniera flessibile.
L’economia dell’arricchimento ha contribuito ad aumentare i redditi da patrimonio rispetto a quelli da lavoro, col risultato che il capitalismo non dipende più da una massa di lavoratori potenzialmente inclini all’insubordinazione: per gli autori questo è uno dei cambiamenti più significativi vissuti dalla borghesia negli ultimi trent’anni. È così aumentato considerevolmente il numero assoluto dei ricchi e dei super ricchi, oltre che le diseguaglianze a livello mondiale: ne è un indice il consumo, che negli ultimi venti anni si è diviso tra un consumo di massa di prodotti standard e un consumo di prodotti diversi e speciali (artigianali, biologici, garantiti, tradizionali, vintage), destinati a soddisfare gli interessi dei più ricchi.
Chi si arricchisce con l’economia dell’arricchimento? Una classe patrimoniale, composta da grandi ricchi, ma anche da una nuova classe media di rentiers e di eredi.
Chi è invece lo sfruttato da tale economia? I lavoratori precari e stagionali, un proletariato, a differenza di quello industriale, disperso e transitorio e pressoché privo di organizzazioni.
E i quadri? Sono i creativi, giovani, scolarizzati, commercianti di se stessi, anch’essi dispersi spazialmente e temporalmente, con un tempo di lavoro che coincide spesso col tempo di vita, e soprattutto autosfruttati. Oltre che incapaci di individuare la controparte della quale non di rado condividono gli stessi “valori”.
Ecco
che l’economia dell’arricchimento arricchisce non solo gli oggetti,
ammantandoli di una narrazione per venderli a un prezzo elevato, massimizzando
il profitto, ma anche i più ricchi; senza che, d’altra parte, coloro che non si
arricchiscono, o che addirittura si impoveriscono, e che potrebbero a giusto
titolo dirsi sfruttati, dispongano di strumenti per mettere in evidenza e
criticare la propria condizione.
[1] “La merce per spostarsi da un luogo all’altro deve aumentare di prezzo nel corso del viaggio”, Fernand Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII), v. 2: I giochi dello scambio, Torino, Einaudi, 1981, p. 154.