Intervista di Luigi a Felice (Rosario Colaci) [QUI IL PDF]
da Rivista Malamente #26 (set. 2022)
Felice abita nelle campagne maceratesi. La sua vita all’insegna della sobrietà ci indica come sentirsi appagati rinunciando al superfluo, come ricercare l’autosussistenza e l’indipendenza all’interno di una rete di relazioni genuine e di scambio reciproco. Felice ci ha accolto in casa per lavorare alle bozze di una sua raccolta di poesie – “Quando non zappo, a volte scrivo” – che abbiamo da poco pubblicato nella collana Voci delle Edizioni Malamente. Il testo che segue è frutto di quella chiacchierata primaverile, sulla base di un’intervista uscita nel 2009 sulla rivista “Lato selvatico”.
Raccontaci un po’ di te, di come sei arrivato a stabilirti in questa casa nelle colline marchigiane, al confine tra la campagna e il bosco…
La mia storia potrebbe forse cominciare da quando avevo sedici anni (adesso ho passato i sessanta) e vivevo in un paese del Salento vicino a Lecce. Allora frequentavo l’istituto tecnico commerciale, una scuola che non avevo scelto e che era proprio incompatibile con le mie capacità e i miei talenti: odiavo la matematica e mi piaceva l’arte. In quel periodo ci fu un primo cambiamento radicale nella mia vita, dovuto a delle riflessioni profonde sul suo senso e sulla piccolezza di noi esseri umani. Questi pensieri m’imponevano una presa di posizione. Non potevo, allo stesso tempo, rendermi conto di quanto ero minuscolo e di quanto l’esistenza umana fosse impermanente e, insieme, prepararmi a una vita di competizione, ostentazione, finzione e superficialità.
No, per me non valeva la pena, volevo una vita che fosse degna di questo nome, piena, sensata, per cui anche morire avesse un senso. Intuivo che le prospettive che mi si offrivano inserendomi nell’attuale società non potevano darmi tutto questo e tutt’al più sarebbero state un diversivo per evitare di affrontare questi pensieri. Mi si offrivano quindi due prospettive: fare finta di niente, evitare di pensare a queste cose, oppure cambiare e cercare quella “vera vita” che doveva pur esistere da qualche parte. Ho scelto la ricerca, l’inseguire il sogno impossibile, valeva la pena almeno provare. E così tre giorni prima di compiere diciassette anni sono andato via di casa.
In quel periodo c’era il movimento hippy e quegli ideali di cambiamento radicale e di vita libera, semplice e spontanea mi attiravano molto. Così ho vissuto due anni “sulla strada” poi, in seguito a un’esperienza mistica molto forte e profonda, in cui ho scoperto il messaggio di Cristo nelle parole del Discorso della montagna, mi sono unito a un gruppo composto perlopiù da ex hippy che vivevano in comunità come una grande famiglia e divulgavano il messaggio del “cristianesimo rivoluzionario”. Ho vissuto quindici anni sotto l’influenza di questo gruppo, che però era in continua evoluzione e col passare del tempo diventava sempre più diverso da quando mi ero unito. Quando poi ne sono venuto fuori (con moglie e figli) mi sono reso conto di quanti compromessi avevo fatto con me stesso in quel periodo e di quanto avessi dovuto lottare con il mio sentire interiore per poter rimanere in quel gruppo così a lungo.
È stato allora che ho cominciato a dipingere per strada nello stile dei “madonnari”. Intanto il rapporto con la mia compagna, che vacillava già da molto tempo, si ruppe definitivamente. La mia vita era a pezzi, non so neanche come ho trovato la forza per andare avanti. Dipingere per strada però mi piaceva molto, era uno dei pochi momenti in cui ero sereno in quel periodo di profonda tristezza. Durante tutti questi anni di cambiamenti e di peregrinare, il richiamo verso la campagna e la vita libera e selvatica era stato sempre una presenza costante e in varie riprese avevo fatto esperienza di raccolta di erbe medicinali e commestibili e di coltivazione di ortaggi. La svolta veramente risolutiva è arrivata ormai quasi venticinque anni fa, nel 1998, quando sono venuto a vivere qui.
Una volta arrivato nelle campagne marchigiane, come ti sei organizzato la vita?
Qui, senza avere un progetto né un programma vero e proprio, si è realizzato quello per cui mi ero preparato, un po’ consapevolmente e un po’ inconsapevolmente, durante tutto il mio percorso precedente. Alcuni degli sviluppi e delle soluzioni che ho trovato non potevo immaginarli, né prevederli, ma si sono verificati del tutto spontaneamente.
Il posto in cui vivo era stato abbandonato dai suoi abitanti, come se fossero fuggiti via. Nelle case c’erano i mobili pieni di vestiti e poi attrezzi e ogni genere di cose. Loro sono fuggiti in città alla ricerca di un mito, di un’illusione, in realtà sono solo andati a farsi sfruttare da padroni diversi che in cambio di una pancia piena, di una testa piena e qualche gingillo tecnologico, gli hanno svuotato il cuore e l’anima. Io, al contrario, sono fuggito dal deserto interiore della città per venire qui alla ricerca di quella pienezza di vita che in realtà tutti sognano.
La vita selvatica aveva già cominciato a riprendersi quello che gli uomini avevano abbandonato: campi, frutteti, vigneti, uliveti erano ormai parzialmente o totalmente inglobati dalla vegetazione spontanea. Per poter ricavare qualche angolo coltivabile ho dovuto conquistarmelo metro per metro, lottando con canne, rovi, vitalba, ailanto, sambuco, ortiche e altri infestanti che continuano a reclamarlo e con cui bisogna continuare a fare i conti.
Ho cominciato a coltivare la terra perché ne ero fortemente attratto, perché era una soluzione pratica, semplice, ma che risolveva problemi importanti come l’eterno dilemma dei soldi e di come procurarseli, la qualità del cibo, ecc… E poi coltivare la terra mi dava gioia e soddisfazione profonde. Negli altri posti in cui lo avevo sperimentato ne avevo avuto un buon assaggio, ma era sempre durato per un breve periodo, qualche mese o al massimo poco più di un anno. Tutto ciò andava bene ma mancava la continuità, l’entrare nel ritmo naturale.
Insomma, piano piano ho iniziato a costruire il mio sogno di vita libera e indipendente dal sistema delle merci e dei consumi. La mia è un’agricoltura tutta basata su attrezzi manuali e ho sperimentato anche l’agricoltura naturale o del “non fare” di Fukuoka. Uno dei principi fondamentali del mio modo di vivere attuale è quello di procurarmi tutto ciò che mi serve per la sussistenza nel posto che abito e negli immediati dintorni, sempre nel limite del possibile.
Anche se qui sono l’unico abitante fisso non ho mai, per lunghi periodi, vissuto da solo, anzi c’è sempre stato un discreto via vai di persone. In particolare, con Letizia ho approfondito la ricerca e l’uso delle piante selvatiche commestibili e medicinali, e tuttora condivido vita, pensieri e iniziative.
Cosa significa per te vivere in semplicità e ricercare l’indipendenza?
Vita semplice è ridurre i consumi al minimo, autoprodursi la maggior parte di quello che si consuma, compresi i mobili, i vestiti, le riparazioni della casa, senza disdegnare di utilizzare cose di seconda mano, di cui faccio largo uso. Vuol dire una cucina molto semplice, con quello che la vegetazione selvatica produce in quella stagione o che hai messo da parte come le formiche nei periodi di abbondanza. Macinare il grano a mano, farsi il pane, raccogliere le olive per fare l’olio, ecc. Semplicità è re-inventarsi quella che dovrebbe essere una vita a misura d’uomo. Una vita spogliata da tutti i fronzoli che richiede il vivere artificiale ma che, nella sua essenzialità, è veramente ricca e soddisfacente.
Penso che la schiavitù del denaro sia prima di tutto un atteggiamento mentale che viene trasmesso dalle istituzioni, dalla famiglia e dalla scuola. In un modo o nell’altro ci viene insegnato che è inevitabile che ci siano padroni (ora chiamati datori di lavoro) e dipendenti, sfruttatori e sfruttati. Ma io non voglio essere né l’uno né l’altro! E allora cosa posso fare, come posso sfuggire a questi ruoli che la società odierna ci impone? Per prima cosa bisogna coltivare questi pensieri e atteggiamenti d’indipendenza, fino a impregnarsene profondamente, così da invertire tutto ciò che una propaganda assidua e globale ci ha instillato talmente bene da essere ormai parte della nostra forma mentale. Naturalmente questo è un lavoro lungo e graduale e probabilmente ci vogliono molti più anni di quelli che ci sono voluti per fare di noi delle persone dipendenti, anche perché l’apparato propagandistico ha lavorato su di noi nello stadio in cui eravamo più facilmente impressionabili e ricettivi: l’infanzia e la giovinezza. Ma se prendi coscienza di tutto ciò e vuoi renderti una persona indipendente e libera, non c’è niente che potrà fermarti, le difficoltà saranno solo uno stimolo per andare avanti.
Gran parte dell’essere indipendenti, a mio avviso, comincia proprio dentro di sé, nel cuore e nella mente. Se ti rendi conto delle molte cose e mode di cui potresti fare a meno, non solo ti rendi molto meno influenzabile e pesante, ma non dovrai neanche più lavorare così tanto per procurartele. Va da sé che per attuare questo tipo di vita bisogna stare in campagna anzi, per quanto mi riguarda, in un posto abbastanza selvatico, dove cioè le coltivazioni non sono di tipo intensivo e dove ci sono spazi liberi come prati, boschi, montagne.
Non c’è per me una separazione netta tra il lavoro per la sopravvivenza e il ricrearsi. Tutte le attività fanno parte di un tutt’uno, ad esempio quando vado in giro tra montagne e boschi per il puro piacere di contemplare la vita e il mondo, spesso raccolgo erbe e frutti. Anche le stagioni sono un tutt’uno con i loro aspetti diversi e potremmo essere anche noi un tutt’uno con la natura selvatica, se solo ritrovassimo i veri noi stessi che abbiamo perso in quelle giungle artificiali che ci siamo costruiti e che ci isolano dal cerchio unito della grande madre natura. Allora sì che non ci sarebbe separazione tra lavoro e ricreazione, perché zappare la terra, farsi una nuotata nel fiume o nel lago, fare il pane, andare in giro a raccogliere erbe e frutti, fare legna nel bosco, sedersi o fermarsi a guardare il cielo, le piante, i fiori, fare marmellate, leggere un libro, scrivere una poesia, tagliare i rovi ecc… possono essere occupazioni faticose o riposanti, ma sono sempre parte di una vita armonica.
Questo stile di vita ti consente anche di avere un minimo di reddito che ti permette di affrontare le spese irrinunciabili (penso a bollette, riparazioni che non sei in grado di fare personalmente, benzina ecc.) o devi fare affidamento su entrate extra?
In realtà la mia vita è talmente semplice che di spese ce ne sono veramente poche. Da quando sono venuto qui, gradualmente, sono andato sempre di meno a dipingere in strada per guadagnare qualcosa e ancora di meno a spendere al supermercato. Le mie spese alimentare ora si riducono al comprare qualche quintale di grano da un contadino della zona (che mi basta per tutto l’anno), qualche volta il formaggio (se posso lo scambio con qualche mio prodotto al mercatino) e le uova, sempre da contadini della zona. Le bollette (luce e acqua) sono molto basse, i miei consumi sono minimi. Le spese maggiori sono i trasporti e le riparazioni dei mezzi, ma comunque sono lo stesso basse perché sto viaggiando sempre meno.
Non faccio nessun sacrificio per vivere in questo modo, anzi per me è molto soddisfacente. Con l’autoproduzione per la sussistenza e consumi essenziali senza sprechi mi sento appagato e realizzato. Un’idea che mi ha spinto verso questa direzione è stata il rendermi conto che ogni cosa che sprechiamo ci costa lavoro (o, se lo sfruttiamo, il lavoro altrui) e ogni ora di lavoro che poi va sprecata è una parte della nostra vita che buttiamo via, specialmente se facciamo un lavoro innaturale, che non ci piace.
Comunque, per rispondere appieno, devo dire che qualcosa vendo al mercatino (come tè di frutti di bosco, caffè di ghiande, erbe aromatiche, piantine, libretti di poesie), anche se pratico soprattutto il baratto e riutilizzo molte cose usate (vestiti, utensili, attrezzi). Se poi ho bisogno di altri fondi vado a dipingere per strada, ma in questi ultimi anni l’ho fatto pochissime volte, fino a smettere del tutto.
Sappiamo che anche da queste parti esiste una comunità di ri-abitanti delle campagne, che ha una rete di relazioni e di scambi per coltivare un altro modo di vivere. Tra i vari strumenti e occasioni d’incontro ci sono la rivista rurale e visionaria “Seminasogni” e l’omonimo mercatino a cui hai fatto cenno; ce ne vuoi parlare?
All’inizio non conoscevo quasi nessuno degli abitanti contadini della zona. Ero solo alla ricerca di un posto in cui poter fare stabilmente l’orto e vedere crescere gli alberi da me piantati. Poi, un giorno, Fabrizio che abita vicino a Cupramontana mi ha invitato a un incontro della rete CIR (Corrispondenze e informazioni rurali), di cui non avevo mai sentito parlare. Lì ho iniziato a conoscere molti ri-abitanti della zona e ho scoperto che in tutt’Italia c’era un bel fermento. Io che sentivo il bisogno di stringere legami e di comunicare con l’esterno ho avuto l’idea del “Seminasogni”. La rivista si rivolge a chiunque ne sia attratto, con l’intento dichiarato nel sottotitolo (FOLK: finché ognuno li kolga) di seminare sogni, idee, esperienze perché possano germogliare piante e si raccolgano frutti. Nel periodo in cui è nata l’idea ero particolarmente euforico perché cominciavo a rendermi conto che stavo realizzando un bellissimo sogno e volevo semplicemente condividerlo, cosicché altri fossero incoraggiati a realizzare il loro.
Dagli incontri che facevamo tra simpatizzanti e collaboratori del “Seminasogni” è nato successivamente il mercatino che ha contribuito ancor di più a infittire i contatti. Devo dire che all’inizio ero un po’ titubante, pensavo che difficilmente avrebbe funzionato, ma pensavo anche che valesse la pena provarci: se era un’esigenza sentita anche da altri si sarebbe realizzata, sennò tutto rimaneva come prima e non ci avrei perso nulla. Ora però posso dire che se non ci avessi provato avrei sicuramente perso qualcosa, perché il mercatino è stato veramente un bell’impulso, un modo per costruire un’economia alternativa e per incrementare l’indipendenza dal sistema commerciale ufficiale. Oggi in realtà questa esperienza possiamo dire che è giunta al termine, ma recentemente sono nati altri momenti di incontro e di scambio.
Naturalmente non ho fatto tutto da solo, c’è stata sempre una fitta schiera di attivi sognatori e sognatrici, che con gli articoli, i disegni, la distribuzione, i fondi per stamparlo, l’incoraggiamento e in tanti altri modi hanno contribuito sia alla pubblicazione del giornale che all’organizzazione del mercatino.
Come ti relazioni, oggi, con il concetto di “Dio”?
A questo se non ti dispiace rispondo con una mia poesia, che ho scritto nell’aprile 2021, si intitola “Non è questo, non è quello”:
C’è chi lo chiama Padre
e chi lo chiama Madre
chi lo crede uno e chi lo crede tanti
un vecchione che sta in mezzo ai santi.
Per alcuni è Amore, per altri Giustizia
per alcuni è gioia, per altri mestizia.
C’è chi lo impreca e chi lo implora
chi lo nega e chi lo adora
chi gli costruisce chiese, templi e sontuose dimore
chi s’inginocchia, si prostra, gli rende onore.
C’è chi per Lui fa la guerra e chi la pace
chi lo invoca a voce alta, chi lo pensa e tace.
Non è questo, non è quello
non è brutto, non è bello
non è bianco, non è nero
ma di certo è un gran mistero.
Come vivi il rapporto con l’invadenza della tecnologia, che non possiamo considerare uno strumento da utilizzare, ma qualcosa che plasma il mondo e le relazioni sociali in maniera totalitaria e da cui è molto difficile tirarsi fuori?
Amo le tecnologie semplici, quelle che per funzionare non richiedono energia fossile o motori complicati, come gli attrezzi manuali o quelli a trazione animale. Che siano facilmente riparabili e non richiedano tecnici specializzati. Come: zappa, sega, falce, accetta, calesse, aratro e via discorrendo. Essendo però anche io figlio di questo tempo faccio uso di svariate tecnologie non propriamente affini al mio sentire, come: telefono, automobile, luce elettrica e altre, di cui comunque faccio un uso molto sobrio e limitato, senza sentirmi per questo sacrificato e soprattutto senza sensi di colpa.
La mia è una ricerca della giusta dimensione umana, quella in cui è possibile la gioia pura e semplice di vivere e in cui per soddisfare i propri bisogni fisici e spiritali non c’è bisogno di essere in conflitto con il mondo naturale che ci ospita, abusando di tecnologie eccessivamente invadenti e altre diavolerie velenose. Il nostro innato spirito di collaborazione e l’uso di semplici tecnologie basta per supplire a tutti i nostri bisogni essenziali e a renderci indipendenti dalla cultura dominante e da una società che, specialmente attraverso l’uso di tecnologie produttive, ci asservisce alla voracità di pochi individui insaziabili che ne detengono il possesso.
Tu sei anche poeta, ce ne hai poco fa dato una prova e lo sappiamo bene perché come Edizioni Malamente stiamo lavorando proprio all’uscita di una tua raccolta di poesie. Cosa rappresenta per te la poesia e quale ruolo ha nella tua vita?
La poesia è stata una bella sorpresa, qualcosa che non sognavo proprio di riuscire a fare, specialmente in rima. Pensavo che scrivere in rima fosse molto difficile, una specie di prigione, un ostacolo in più da superare. Invece ora non mi viene da scrivere poesie in altro modo, ho bisogno di quel ritmo baciato. A volte rimango piacevolmente stupefatto nel constatare cosa viene spontaneamente fuori seguendo il flusso delle rime. La poesia mi porta a immergermi nei pensieri più profondi e a condurli alla superficie, è un vero viaggio spirituale. Un modo per comunicare quello che sento in maniera pura, genuina. Anche se, naturalmente, a volte nella vita quotidiana non sono all’altezza di certi idealismi poetici…!