Da Rivista Malamente n. 17, mar. 2020 (QUI IL PDF)
Di Miguel Amorós
La possibilità di spostarsi, viaggiare e soggiornare per brevi periodi “altrove”, tipicamente in estate, è oggi alla portata di molti, ma spesso si finisce per ammassarsi con altri simili negli stessi posti, influenzati dalle migliaia di travel blog, dai portali booking, dalle offerte economiche, dalle tratte low cost, da un immaginario vacanziero sempre più stereotipato. Eppure varrebbe la pena percorrere sentieri non battuti, cercare alternative inaspettate, per scoprire che la meraviglia può essere anche a distanza ragionevole da casa, può essere alla portata delle proprie tasche e altrettanto entusiasmante (se non di più) delle mete maggiormente in voga. Conosciamo bene il turismo di massa, che si abbatte ormai da decenni sul nostro litorale adriatico, così come avviene, forse in misura ancora peggiore, nelle Isole Baleari: territorio raccontato da Miguel Amorós in questo articolo. Ora, se qualcuno tra i nostri lettori e lettrici fosse andato in vacanza alle Baleari non si senta in colpa; non gli/le chiediamo di battersi il patto meditando sui propri peccati, perché qui non vogliamo mettere in discussione i comportamenti individuali (in qualche modo indirizzati e condizionati dal contesto sociale) ma il modello culturale sottostante. Il testo che segue è la trascrizione di un intervento tenuto il 27 ottobre 2016 all’Ateneu Lo Tort[1] di Manacor (Maiorca), che abbiamo ripreso dall’appendice del libro di Henri Mora, Désastres touristiques. Effets politiques, sociaux et environnementaux d’une industrie dévorante (L’échappée, 2022). Un secondo intervento, dedicato ai Pirenei catalani, lo pubblicheremo su uno dei prossimi numeri della rivista.
La distruzione costante e irreversibile della costa e dell’entroterra alle sue spalle non è un fenomeno esclusivo di Maiorca. Si verifica in tutto il Mediterraneo e i suoi effetti sono più o meno visibili ovunque, a seconda della speculazione immobiliare e della costruzione di tangenziali o circonvallazioni. La peculiarità delle Isole Baleari è che questo fenomeno può essere osservato allo stato puro e su scala ridotta, il che ne fa un laboratorio dove studiare l’involuzione di una società, circoscritta in un’area limitata e circondata dal mare, in funzione dell’adattamento delle sue risorse territoriali e dei suoi beni culturali (che sono beni comuni) a un’unica attività economica, privata, il cui solo obiettivo è l’arricchimento personale di chi la pratica.
È indubbio che tutti i mali del popolo maiorchino derivino dal turismo. È questo, infatti, la causa principale della distruzione del territorio e dell’estremo condizionamento della vita dei suoi abitanti. In soli cinquant’anni, ha trasformato l’isola molto più profondamente di qualsiasi altro evento degli ultimi due millenni. Bisogna risalire alla conquista cristiana nel XIII secolo per vedere Maiorca trasformata in un enorme bottino. Il turismo ha divorato tutto il terreno disponibile e ha inondato l’isola di asfalto, cemento e rifiuti. Se questo fenomeno continua, anche senza aumentare, non resteranno angoli da salvare dal più abietto degrado. Per turismo non mi riferisco all’impulso del viaggiatore che, spinto dalla curiosità per altri luoghi e altre genti, si avventura alla ricerca di posti pittoreschi. I turisti di oggi non visitano Maiorca per osservare le usanze del popolo maiorchino, ormai minoritario e straniero nel suo stesso territorio, né per ammirare i suoi monumenti o scoprire i suoi paesaggi: sarebbero incapaci di apprezzare queste cose. Piuttosto, arrivano per brevi soggiorni e dopo essere fuoriusciti dall’aeroporto di Son Sant Joan vengono indirizzati verso la costa, dove troveranno uno spazio su misura, devastato e totalmente mercificato, pensato solo per il tempo libero e per la soddisfazione dei loro bisogni primari di sole e di spiaggia, così come sono stati modellati dal business turistico. Tutto, dal cibo al divertimento, deve essere il più possibile simile a quello che caratterizza la vita alienata del turista nel suo paese d’origine. Egli, infatti, non desidera contemplare qualcosa di diverso da sé, ma si porta appresso il suo mondo. Il turista di oggi non ha nulla a che fare con il viaggiatore romantico del XIX secolo o con l’intellettuale stanco della metropoli del XX secolo. È un prodotto della società dei consumi. Che sia impiegato, studente o pensionato, il suo intrattenimento è oggetto di profitto economico.
Almeno dagli anni Cinquanta, il turismo di Maiorca è un’attività industriale in espansione, che sfrutta una notevole forza lavoro e reca sostanziali profitti agli sfruttatori. Questa industria è responsabile della trasformazione della vecchia società agricola maiorchina, pressoché feudale, gerarchica e clericale, in una moderna società di massa, ancora più stratificata, governata da un’élite immorale di politici, uomini d’affari e finanzieri. Ed è responsabile della conversione accelerata di una rigida moralità cattolica in una mentalità permissiva, soprattutto sei si tratta di affari. Così, il culto della Mare de Déu di Lluc[2] è stato sostituito da quello del vitello d’oro. Una società di sacerdoti e cacicchi, nata dalla vittoria fascista nella guerra civile spagnola, ha trovato il modo per prolungarsi economicamente e politicamente, trasformando l’intero territorio in una periferia turistica per le classi salariate che abitano le tristi conurbazioni europee. Il turismo è infatti un’attività industriale, praticamente l’unica dell’isola. Tutte le altre dipendono da essa e, in larga misura, l’intera popolazione ne è prigioniera e ne subisce, consciamente o inconsciamente, le conseguenze. Tutto è diventato economia, il che suggerisce che qui tutto è diventato merce turistica: la geografia, la vegetazione, l’acqua, il clima, l’idiosincrasia, la storia, la gente. Purtroppo, “el turismo somos todos y es tarea de todos”[3], secondo uno degli slogan della classe dirigente locale; in altre parole: tutti i maiorchini devono essere coinvolti in quello che da altre parti viene chiamata “balearizzazione”. Alcuni ne traggono un profitto mentre altri, la maggioranza, la sopportano come vittime, alcuni abbandonando il catalano e altri imparano l’inglese.
Sebbene il turismo abbia creato una nuova società di classe sulle rovine di quella precedente, ciò non ha creato una percepibile conflittualità in tema di lavoro; le lotte dei lavoratori non hanno infatti accompagnato in modo significativo lo sviluppo urbano di Palma e della costa. Il primo sciopero fu quello dell’hotel Bellver nel 1973. Nel 1977, durante il movimento di contestazione sorto in tutto il paese, vennero indetti degli scioperi nei cantieri edili e nelle stazioni di servizio, sulla base delle proposte e delle decisioni prese dai lavoratori nelle assemblee. Lo sciopero del personale dell’hotel Lotus Playa, nel 1979, l’ultimo degno di questo nome, si svolse al momento dell’istituzionalizzazione dei sindacati, che portò verso la rapida scomparsa del movimento sindacale di Maiorca. La debolezza del proletariato isolano potrebbe essere spiegata dal fatto che a Maiorca il passaggio dalla società agricola tradizionale al capitalismo moderno non è avvenuto con la fabbrica, ma attraverso gli alberghi. Da un momento all’altro, l’economia dell’isola non era più basata sulla produzione agricola, ma sulla ricettività turistica, la logistica e l’edilizia.
Tuttavia, nonostante l’agricoltura sia stata praticamente eliminata, la campagna non si è spopolata: riqualificandosi nel settore dei servizi, la sua popolazione ha finito per aumentare. Il proletariato necessario per l’espansione della nuova economia non proveniva dai villaggi maiorchini, ma dalla penisola. I successivi boom del turismo hanno creato posti di lavoro in abbondanza e, sebbene di basso livello, hanno offerto ai lavoratori condizioni di vita sufficientemente sopportabili da non sollevare altri problemi se non quelli relativi ai contratti di lavoro. Dal punto di vista sindacale, si aveva una convergenza tra crescita del turismo e interessi dei lavoratori, la maggior parte dei quali era impiegata in un’attività perniciosa, indifferente ai suoi effetti nocivi, per di più parassitata dalla burocrazia. Nonostante gli sforzi del movimento libertario, la critica sociale alla devastazione del territorio non è si è sviluppata in seno alla classe operaia, ed è per questo che ha sofferto a lungo dell’assenza di un approccio di classe e anticapitalista. Di conseguenza, la critica del turismo è rimasta separata dalla critica dell’economia.
Lo sviluppo della monocultura turistica si è poi estesa oltre le zone meridionali dell’isola (intorno a Palma e Calvià) dove era temporaneamente confinata, per invadere improvvisamente qualsiasi terreno accessibile, cosicché la costruzione di strade e autostrade è presto diventata la priorità assoluta. Data l’insularità di Maiorca e data la limitatissima disponibilità di terreno per l’urbanizzazione, il conflitto territoriale era inevitabile. Lo scontro tra interessi opposti, quelli dei promotori dello “sviluppo” da un lato e quelli dei difensori dell’ambiente dall’altro, non tardò a verificarsi. La natura incontrollata e distruttiva dell’industria estrattiva del turismo ha avuto un impatto incontrollato sul territorio, creando in alcuni isolani una coscienza territoriale che si è andata concretizzando in una protesta organizzata. L’occupazione di Sa Dragonera, la lotta contro l’autostrada Palma-Inca e la mobilitazione per la salvaguardia della spiaggia di Es Trenc, tra il 1977 e il 1983, hanno segnato la prima tappa nella difesa del territorio.
La terziarizzazione dell’economia, favorendo l’appropriazione privata dei cospicui introiti generati dal turismo al prezzo del degrado dell’intera isola, ha determinato lo scontro tra l’élite estrattivista e gli abitanti che, senza volerlo, si sono trovati in mezzo al disastro. La pressione è aumentata quando si è passati dall’occupazione intensiva del territorio, propria dell’industria turistica iniziale, a quella più estesa tipica delle seconde case, di cui l’urbanizzazione di Part Forana è un esempio. Con lo sviluppo della nuova classe media con il suo stile di vita consumistico, la speculazione si è democratizzata. Ovvero, è emersa una domanda interna. Poi, l’arrivo del capitale internazionale, non ha fatto che aumentare le tensioni. “Maiorca sarà la seconda casa dell’Europa”, dichiarava il cacicco Gabriel Cañellas mentre diverse navi cisterna trasportavano acqua dall’Ebro a Bahia de Palma per i turisti. All’epoca, le entrate turistiche coprivano il deficit commerciale della Spagna e queste dichiarazioni furono ben accolte da Madrid.
La manifestazione del novembre 1998 contro la costruzione di complessi residenziali ha dimostrato la notevole capacità di mobilitazione della società civile. Quella del febbraio 2004 è stata l’apice di questa lotta in difesa del territorio. Lotta che era il risultato di un antagonismo che si faceva sempre più radicale mano a mano che il turismo colonizzava la vita quotidiana di tutti i maiorchini e li sradicava dal proprio paese, senza però riuscire a far emergere un soggetto sociale autonomo. Vale la pena notare che, in questo stesso periodo, le istituzioni di governo più importanti delle Isole Baleari erano guidate dalle varie forze politiche riunite nel Patto del progresso.[4] Regnava la pace territoriale, anche se il territorio veniva costantemente saccheggiato. Più precisamente, la difesa del territorio prendeva la forma del cosiddetto NIMBY (“non nel mio cortile”), senza andare oltre la strategia dei ricorsi legali, il sentimentalismo identitario e l’attaccamento alla politica tipici delle piattaforme cittadiniste. L’opposizione sembrava non rendersi conto della necessità di un’opposizione più ampia al turismo di massa, ai progetti di sviluppo e di urbanizzazione e a tutto ciò che questi comportavano, dalle centrali termoelettriche ai supermercati, dagli inceneritori alle autostrade, ai porti turistici e così via. Lotte puramente difensive, all’interno di un’economia che non viene messa in discussione, scompaiono da sole, chiuse nei propri limiti. La risoluzione definitiva del conflitto territoriale non poteva consistere in una legislazione protettiva, che indirizzasse il turismo verso forme di sfruttamento meno aggressive salvando una parte più o meno grande del territorio, ma risiedeva nello smantellamento dell’attività turistica in quanto tale. Farla finita con il turismo industriale implica una lotta prolungata contro la classe dominante che ha generato questa attività, la classe più predatoria nella storia delle Isole Baleari, molto avanzata in termini di corruzione e molto tradizionale in materia di pirateria.
La gravità delle aggressioni che accompagnano la proletarizzazione del territorio maiorchino, sovrappopolato, con un alto livello di massificazione e con tutti gli indicatori di stress turistico in rosso, ha portato una parte della classe dirigente dell’isola, fino a poco tempo fa in minoranza, alla convinzione che sia necessario adottare misure ecologiche senza le quali sarebbe impossibile amministrare il disastro. Anche i leader più ottusi sanno cosa significa la perdita della qualità della vita a favore del turismo. Salvaguardare gli interessi privati non può più avvenire a scapito dell’interesse generale, cioè di un vero e proprio interesse di classe, che oggi diventa ecologista. Paradossalmente, l’ecologia appare come una soluzione alle contraddizioni del turismo industriale, passando attraverso uno sviluppo “sostenibile” che segni i costi ambientale sul conto dell’attività turistica. Le tasse ne sarebbero un piccolo esempio. Il capitale accoglie l’ambiente nel suo ovile, il che è di per sé un fatto importante, una svolta “ecosviluppista” decisiva.
Lo scandalo della corruzione ha facilitato la sostituzione della squadra di governo di destra che vi si era impantanata[5] e le istituzioni, ora in mano alla “sinistra”, sono state incaricate di promuovere un grande patto fra imprese internazionali, imprenditori locali, sindacati e “movimenti sociali”, a favore di un turismo destagionalizzato, diversificato e più green. La politica delle Isole Baleari, da sempre soggetta alla dittatura del mercato turistico, sta quindi diventando ecologista e gli ecologisti compaiono nelle liste elettorali, a testimoniare la conciliazione tra interessi diversi, da una parte quelli dello sfruttamento delle risorse dell’isola, dall’altro quelli della popolazione, attraverso leggi, ecotasse, procedure ambientaliste e moratorie urbanistiche. Né il modello turistico in sé, né la crescita delle attività turistiche vengono però messe in discussione, ma solo assoggettati a norme volte a mitigare gli eccessi. La nuova politica si inserisce nella nuova fase del capitalismo delle Baleari, corrispondente al compromesso tra turismo di massa, istituzionalizzazione della lingua catalana e protezione del territorio. In realtà, non è altro che una gestione neutra delle risorse con l’obiettivo di creare un “marchio” riabilitato, presentato in maniera discreta come “nuovo modello turistico”, sviluppista ma regolamentato (il che, tra l’altro, è ancora tutto da definire).
Nella misura in cui si cerca di integrarla e ammetterla nella politica istituzionale, la difesa del territorio e della cultura perde la sua condizione di lotta sociale e cessa di esprimere il conflitto tra oppressori e oppressi che l’aveva determinata. La lotta contro la classe dominante non deve limitarsi alla semplice sostituzione dei suoi leader, alcuni dei quali sono stati perseguiti per i loro crimini e altri sono stati privati dei loro mandati politici, né alla riorganizzazione del territorio per conformarsi alle nuove legislazioni. L’impronta ecologica delle Isole Baleari è equivalente a quella di un’area sei volte più grande. La decomposizione sociale dovuta al modello turistico che, ricordiamolo, è solo uno degli elementi del tessuto economico globalizzato, ha raggiunto un livello tale che anche il problema più banale – che l’acqua del rubinetto sappia di acqua – richiede soluzioni che implicano una completa trasformazione delle relazioni sociali e dello spazio che le ospita (il turismo è la forma specifica del capitalismo globale nelle Baleari). Pertanto, un problema così grave come quello dell’energia non potrà mai essere risolto senza sostituire l’economia di mercato e lo Stato con un’altra forma di convivenza sociale più giusta, più equilibrata e più egualitaria, non soggetta a mediazioni commerciali e partitiche. Un modello decentralizzato di energia non potrà essere socialmente attuato senza smantellare le strutture dominanti, eliminare i profitti privati e, con essi, lo sfruttamento del territorio e dei suoi abitanti.
L’industria del turismo dipende totalmente dall’acqua e dall’energia. Non sarebbe stata in grado di rispondere al primo boom senza i bacini di Gorg Blau e Cuber e la centrale termoelettrica di Es Murterar, così come non sarebbe stata in grado di rispondere al secondo, quella della “democrazia”[6], senza l’impianto di desalinizzazione di Son Togores e l’inceneritore di Son Reus, che producono anche energia. Con le falde acquifere sovrasfruttate, il problema dell’acqua resta da risolvere. In quanto merce, l’energia è un potente fattore di concentrazione del potere; cavi sottomarini, condutture e gasdotti sono le catene attraverso cui le multinazionali dell’energia tengono in pugno la società maiorchina. Tuttavia, la produzione autoctona è ancora necessaria per evitare la catastrofe che potrebbe causare un guasto o un sabotaggio, in caso di assoluta dipendenza dall’esterno. L’arrivo di gas in abbondanza, combinato con l’inceneritore, ha portato alla costruzione di centrali elettriche a ciclo combinato, vera scommessa energetica del governo delle Baleari, ma queste non hanno ancora soppiantato il carbone, che rimane la principale fonte di energia.
Le linee ad alta tensione sono i tentacoli dell’urbanizzazione, che evidentemente continua ad avanzare senza alcuna opposizione, al di là della richiesta di tracciare percorsi diversi. Gli impianti di energia rinnovabile non sono altro che un rifugio sicuro per i capitali immobiliari, poiché i prezzi dell’elettricità e del gas continuano a salire e gli investimenti sembrano essere recuperabili in cinque o sei anni. In realtà, i progetti di energia rinnovabile, in particolare quella solare, non sono espressione di una trasformazione del capitalismo di Maiorca, finalmente attento a un equilibrio con la natura, e ancor meno l’inizio di una “transizione energetica”. Si tratta solo di un tentativo di business, portato avanti da gruppi imprenditoriali opportunisti sostenuti dalle banche. Non mettono affatto in discussione il turismo di massa, visto che a muoverli sono interessi privati, non sociali, che seguono criteri di accentramento tipici dei settori termico e nucleare: grandi investimenti, grandi dimensioni, aumento del consumo di suolo, collegamento alla rete tradizionale per fornire energia a località remote. D’altra parte, in un’isola con un milione di veicoli a motore, l’elettricità non è la forma di energia egemone. Oggi la dipendenza dai combustibili fossili è totale e il modello energetico è lo stesso di sempre, strettamente legato al turismo di massa, ma le convenzioni internazionali per mitigare il cambiamento climatico garantiscono agli investitori che si avventurano nel settore delle rinnovabili industriali una fetta apprezzabile della torta energetica.
La natura industriale degli impianti solari fotovoltaici rende discutibile il carattere ecologico dell’energia prodotta. Sono necessarie grandi superfici di terreno (quasi sempre agricolo), materiali da costruzione, strade di accesso, trasformatori, strutture di supporto, cavi e batterie, il tutto con un certo costo energetico. L’impatto visivo è sempre negativo. La costruzione dei pannelli solari comporta il consumo di alluminio, acciaio e vetro, ma è la fabbricazione dei wafer di silicio cristallino o amorfo[7] ad avere i costi energetici più elevati e a generare i rifiuti più inquinanti (gas, polveri, residui). Il silicio, benché abbondantemente presente sulla terra, è costoso nella forma richiesta e, inoltre, la sua produzione è concentrata in quattro paesi che monopolizzano il mercato. L’arseniuro di gallio, il tellururo di cadmio e i seleniuri di indio e germanio sono più efficienti o meno costosi, ma tutti questi elementi sono rari e quindi non rinnovabili; per ottenerli sono necessari processi molto impattanti che consumano grande energia. D’altra parte, l’efficienza dei pannelli non è totale: dipende dall’insolazione, dall’inclinazione e dall’orientamento. Infine, il “parco fotovoltaico” deve essere associato a una fonte di energia fossile, poiché non funziona quando non c’è il sole. Gli esperti indicano in quattro anni il pareggio della resa energetica di un pannello (la cui durata di vita è di venti-trenta anni), ma con ogni probabilità i pannelli dovranno funzionare molto più a lungo per compensare l’energia non rinnovabile utilizzata per la loro costruzione. Sebbene, dunque, sia discutibile che la produzione industriale di energia elettrica dalla luce del sole sia pulita, ha però il vantaggio di essere in linea con il modello green dell’odierna economia capitalista e quindi perfettamente compatibile con il turismo industriale.
In conclusione: non è pensabile un modello di energia rinnovabile scollegato da un modello sociale non sviluppista e da una lotta coerente contro il capitalismo, che nell’isola è una lotta contro tutte le forme di turismo industriale e tutte le infrastrutture, in particolare l’aeroporto. Quest’ultimo è l’anello più debole della catena turistica: senza l’aeroporto non ci sarebbe turismo. La lotta per una società stabile, decentralizzata, cooperativa ed ecologica è fondamentalmente la lotta contro gli interessi legati allo sfruttamento del territorio. Essa porta quindi a un confronto con l’oligarchia politica, economica e finanziaria che presiede al destino dell’arcipelago. È ecologica, culturale, sociale e antiparlamentare, in opposizione radicale alla crescita economica.
Il realismo suggerisce di non affidarsi a proposte che promettono un capitalismo meno dannoso, una motorizzazione più elettrica, un ritorno alla terra sovvenzionato o un turismo sostenibile, il tutto controllato da istituzioni autonome che facciano risiedere il potere nelle mani dei “cittadini”. Questo è il caso dei partiti che sostengono l’attuale coalizione di governo, ma non ci si può fidare nemmeno di alternative simili da parte di una società civile rinunciataria e consumistica, in cui credono alcuni movimenti cosiddetti “sociali”. Il regime economico e sociale che domina Maiorca non è riformabile; non c’è altra scelta che smantellarlo. La distruzione è tale che qualsiasi cambiamento reale richiederà misure drastiche, impossibili da adottare nell’ambito di un regime economico e politico come quello attuale. La critica sociale deve attaccare i problemi alla radice. Le contro-istituzioni che nascono da mobilitazioni e dibattiti assembleari possono esserne lo strumento.
[1] L’Ateneu Lo Tort a Manacor è un centro culturale popolare e libertario dove vengono organizzati incontri, dibattiti, laboratori, proiezioni, mostre ecc. [NdT]
[2] La Mare de Déu di Lluc è la santa patrona dell’isola di Maiorca. Si dice che la Vergine Maria sia apparsa qui e Lluc è così diventato un luogo di pellegrinaggio, che oggi accoglie i numerosi turisti in visita al monastero. [NdT]
[3] Letteralmente: «il turismo siamo tutti ed è un affare di tutti».
[4] Il Patto del progresso è il nome dato alla coalizione di diverse forze politiche che si sono unite in più occasioni per battere alle elezioni il Partito popolare delle Baleari.
[5] Maiorca è da tempo afflitta da scandali. Il Partito popolare (PP) di destra, che prima del 2015 deteneva la maggioranza nel Consiglio di Maiorca, è stato coinvolto in alcuni di questi scandali. Nel 2015, una nuova coalizione di sinistra ha conquistato la presidenza dopo diverse settimane di negoziati tra il MES (socialista, ecologista, pancatalanista), il PSOE (Partito socialista operaio spagnolo) e Podemos (partito nato dal movimento cittadinista degli Indignati, che nel 2011 ha occupato le piazze in diverse città spagnole). [NdT]
[6] La prima espansione dell’industria turistica si è avuta sotto la dittatura franchista, la seconda, dopo la morte di Franco, con l’avvento della democrazia. [NdT]
[7] Un wafer di silicio è una sottile fetta di materiale semiconduttore utilizzato nella fabbricazione di componenti elettronici, come processori ecc.