Di Luigi
La mattina del 7 settembre 1894, il delegato di polizia di Fano, Achille Riello, si siede alla sua scrivania, estrae dal cassetto un foglio di carta intestata al Regio ufficio di pubblica sicurezza, impugna la penna e redige una nota diretta al procuratore del Re. Oggetto: «manifestazioni sovversive». Da informazioni confidenziali ricevute qualche giorno addietro, risulterebbe che la sera di domenica 2 settembre, intorno alle ore 19.00, nell’osteria fuori porta Cavour, alcuni individui non ancora identificati ma descritti come «una comitiva di anarchici socialisti» abbiano intonato canzoni proibite dalla legge.
Appena ricevuta la segnalazione, l’ufficio di polizia si era subito messo in moto. L’indagine era partita con l’interrogatorio dei conduttori dell’osteria, i coniugi Laura Latini e Achille Pandolfi, i quali riferivano che quella domenica, nel cortile del loro esercizio, erano presenti circa settanta persone divise in vari gruppi, da uno dei quali – è vero – tra un bicchiere e l’altro si erano levate «alcune canzoni popolari». In prima battuta, Latini e Pandolfi affermano di aver riconosciuto tra i canti l’Inno dei lavoratori, ma poi confermano all’interrogante che le strofe udite contenevano le parole «bandiera rossa e nera». Pertanto, il delegato Riello non ha dubbi: non si tratterebbe dell’Inno dei lavoratori, ma del ben più famigerato Inno della canaglia.
Entrambi gli inni erano in realtà proibiti e chi veniva sorpreso a intonarli in pubblico era passibile di arresto in flagranza in base all’art. 247 del codice penale, che puniva l’apologia di reato, l’incitamento alla disobbedienza della legge e «all’odio fra le varie classi sociali in modo pericoloso per la pubblica tranquillità». Le cronache e gli atti giudiziari di quegli anni contengono numerosi processi per canzoni proibite cantate pubblicamente. A volte anche con risvolti comici, come quando capita che accusa e difesa facciano rimbombare vocalizzi e stonature nelle aule di tribunale, per dimostrare ai giudici che i brani cantati dagli imputati erano davvero gli inni proibiti o, al contrario, qualche altra innocente canzone popolare.
Il motivo musicale dei due inni era simile. Entrambi parlavano di oppressione e redenzione, di ricchi sfruttatori e di fratellanza dei lavoratori, della necessità di marciare, lottare e vincere. Se l’Inno dei lavoratori chiamava a raccolta il proletariato cosciente ricordandogli il valore dell’organizzazione perché «divisi siam canaglia», l’altro, con il tipico immaginario anarchico, connotava positivamente quella canaglia e la sua indole ribelle, elevandola a primo interlocutore e destinatario dell’Inno. Di seguito i due ritornelli; quello dei lavoratori:
Il riscatto del lavoro
dei suoi figli opra sarà:
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà.
E quello delle canaglie:
Su moviamo alla battaglia
vogliam vincere o morire
su marciam santa canaglia
e inneggiamo all’avvenir
L’Inno dei lavoratori era stato scritto nel 1886 da un giovane Filippo Turati, avvocato e letterato, su sollecitazione degli esponenti del socialismo italiano ed era stato musicato da Amintore Galli (critico musicale de “Il Secolo”, direttore dello Stabilimento musicale Sonzogno, già volontario garibaldino ma privo di velleità sovversive – divenuto anzi monarchico e conservatore – che aveva riciclato e adattato una musica già composta per un circolo ricreativo). Era stato in particolare Costantino Lazzari a richiedere a Turati un inno «semplice, gagliardo, espressivo» e così racconta il momento in cui l’autore glielo consegnò: «Passai e ripassai dal poeta e finalmente un giorno mi presentò un gran foglio sul quale aveva scritto le otto strofe dell’Inno. Lo trovava volgare, sciatto, pedestre; lo massacrò coi suoi inesauribili sarcasmi; mi promise di rifarlo; ma io che ne avevo sentito tutta la semplice ed efficace forza suggestiva e non mi fidavo della promessa, presi il foglio e me lo portai via».[1] Da quel momento «l’inno era perseguitato con accanimento, ma lo si cantava, lo si suonava, lo si zufolava per le vie e nelle case. Chi era colto veniva condannato a 75 giorni di reclusione per il reato di istigazione a delinquere o di eccitamento a l’odio».[2]
Pubblicato per la prima volta con titolo Canto dei lavoratori. Inno del Partito operaio italiano sul giornale “Il Fascio operaio”, l’Inno ebbe grandissima fortuna ed è senza dubbio, al pari dei successivi Bandiera rossa e L’internazionale, uno più significativi motivi del movimento operaio italiano, cantato a ogni congresso, evento, festa e ricorrenza, presenza stabile nel repertorio delle bande musicali popolari.
L’Inno della canaglia, con sottotitolo Marcia dei ribelli, era invece opera dell’anarchico Pietro Gori, scritto nel carcere di San Vittore a Milano, il 17 luglio 1891, mentre si trovava rinchiuso per una condanna a dieci giorni; la musica, in questo caso, è del noto direttore d’orchestra Carlo Della Giacoma.
Tornando a quanto accaduto la sera del 2 settembre 1894 all’osteria di Porta Cavour in Fano, e alla relativa relazione di polizia, il delegato Riello annota che nessun concreto aiuto alle indagini era arrivato dai coniugi gestori dell’osteria, i quali si rifiutavano di dare in pasto alle autorità i nomi dei colpevoli: i due non ricordano, non conoscono, erano occupati a fare altro… anzi, ci tengono a precisare che la comitiva cantava nel piazzale esterno, subito fuori dall’osteria, non nel cortile interno.
Ulteriori informazioni raccolte in via confidenziale, probabilmente giunte da altri avventori del locale, denunciano però come appartenenti al gruppo cantante quattro noti anarchici locali. Si tratterebbe di Romolo Falcioni (27 anni, calzolaio), Alessandro Andreani (24 anni, muratore), Vittorio Magini (27 anni, calzolaio) e Temistocle Lombardi (27 anni, tintore). Tutti sovversivi già conosciuti alle forze di polizia, che già negli anni precedenti si erano distinti per una serie di oltraggi, affissioni abusive, grida sediziose, “turbe” di piazza. Qualche mese prima, a maggio 1894, uno di loro – Temistocle Lombardi – era anche stato denunciato per un episodio simile a quello attualmente incriminato: l’aver cantato insieme ad altri compagni l’Inno dei lavoratori nell’osteria di Giovanni Occhialini, in occasione dell’anniversario della morte di Ettore Antonelli (studente di medicina, protagonista della fase di ripresa del movimento anarchico fanese negli anni Ottanta dell’Ottocento, suicidatosi nel 1899, a ventiquattro anni, con una overdose di morfina).
I quattro anarchici vengono quindi convocati e interrogati. Magini nega di essere stato all’osteria la sera dei canti; Falcioni e Andreani confermano di essere passati a bere un bicchiere, ma intorno alle ore 15.00; Lombardi, infine, ammette di essersi fermato all’osteria fino alle 19.30 per bere un litro di vino in compagnia della moglie e dei suoceri, ma senza aver udito nessun canto. Il delegato Riello conclude la nota al procuratore confessando che «tutte le indagini sinora esperite da questo ufficio per accertare il vero ed identificare gli autori della canzone sovversiva riuscirono infruttuose». Gli accertamenti, in ogni caso, proseguono e tanto per non restare con le mani in mano la polizia perquisisce i domicili dei quattro anarchici, «senza nulla rinvenire di delittuoso».
Qualche settimana più tardi, ulteriori soffiate da fonti confidenziali a scoppio ritardato aggiungono altri nominativi alla lista dei sospettati: Domenico Biagioni (26 anni, ortolano), Tommaso Bartolucci (23 anni, calzolaio), Alberico Biagioni (20 anni, scalpellino), Pasquale Ciavaglia (19 anni, tappezziere), Dante Dionisi (18 anni, muratore), Paterniano Brunaldi (25 anni, fabbro ferraio), Giuseppe Rosati (anni 40, bracciante). Diversi dei loro certificati penali, richiesti al tribunale e conservati nel fascicolo di polizia, presentano una o più annotazioni per qualche precedente. Interrogati: solo Domenico Biagioni e Rosati ammettono di essere stati all’osteria e di aver udito i canti, ma precisano di non averne preso parte, né tantomeno ne conoscono gli autori. Tutti gli altri negano di essere passati quella sera all’osteria, fosse anche solo per un bicchiere. Brunaldi in realtà non ricorda con precisione cosa abbia fatto la sera del 2 settembre, in ogni caso non ha di certo cantato l’Inno incriminato: «giacché non so cantare e perciò non canto mai», fa mettere a verbale. Nella caccia ai cantanti sovversivi intervengono intanto anche i carabinieri della stazione di Fano, ma anch’essi, al di là di voci di paese e denunce anonime, non riescono a raccogliere alcuna prova provata.
Durante il mese di ottobre, gli imputati e vari testimoni sono chiamati a comparire al cospetto del pretore del mandamento di Fano, Lorenzo Trebbi. Tutti dicono il minimo indispensabile per non passare per reticenti, nessuno si autoaccusa o accusa altri, l’oste precisa e corregge la sua prima versione sostenendo di aver sì sentito le parole «bandiera rossa e nera», ma queste «furono cantate in mezzo a tante e tante canzoni popolari da me più volte sentite, onde se facevano parte di una strofa dell’Inno proibito, non deve certamente essere stato cantato tutto l’Inno».
A conclusione delle indagini, vista la completa assenza di prove – non solo utili a identificare chi avrebbe cantato, ma anche in riferimento a quale canzone proibita fosse stata effettivamente intonata – il pubblico ministero non può far altro che allargare le braccia. Il 25 novembre si chiude la commedia. Il giudice istruttore firma l’ordinanza per non luogo a procedere e – dopo ben tre mesi di indagini, ventuno interrogatori e un fascicolo con quasi ottanta pagine di burocrazia poliziesca – mette una pietra sopra a tutta la faccenda.
Inno della canaglia
O fratelli di miseria
o compagni di lavoro
che ai vigliacchi eroi dell’oro
deste il braccio ed il vigor;
o sorelle di fatica
o compagne di catene
nate ai triboli, a le pene
e cresciute nel dolor.
Su, moviamo alla battaglia!
vogliam vincere o morir,
su, marciam, santa canaglia,
e inneggiamo a l’avvenir.
Noi la terra fecondiamo
noi versiam sudore e pianto
per ornar d’un ricco ammanto
questa infame civiltà.
Le miniere, le officine
le risaie, il campo, il mare,
ci hanno visto faticare
per l’altrui felicità.
Su moviamo alla battaglia….
I padroni ci han rubato
sul salario e su la vita,
ogni gioia ci han rapita,
ogni speme ed ogni ardor.
Le sorelle ci han sedotte
o per fame hanno comprate,
poi nel trivio abbandonate
senza pane e senza onor.
Su moviamo alla battaglia….
I signori ci han promesso
eque leggi e mite affetto
ed i preti ci hanno detto
che ci attende un gaudio in ciel.
E frattanto questa terra
di noi poveri è l’inferno,
sol pei ricchi è il gaudio eterno
de la vita e de l’avel.
Su moviamo alla battaglia….
Se noi scienza e pan chiedemmo
ci buttaron su la faccia
un insulto e una minaccia
nel negarci scienza e pan.
Se ribelli al duro giogo
obliammo le preghiere,
ci hanno schiuso le galere
e ribelli fummo invan.
Su moviamo alla battaglia….
Se scendemmo per le vie
i fratelli a guerra armata
dei fratelli ammutinati
venner le ire ad affrontar.
Mentre i ricchi dai palagi
che per loro abbiam costrutto
senza pietà e senza lutto
ci hanno fatto mitragliar.
Su moviamo alla battaglia….
Su leviamo il canto e il braccio
contro i vili ed i tiranni;
ribelliamoci agli inganni
d’una ipocrita società.
Oltre i monti ed oltre i mari
i manipoli serriamo,
combattiamo, combattiamo
per la nostra umanità.
Su moviamo alla battaglia….
Innalziam le nostre insegne,
sventoliamo le bandiere;
le orifiamme rosse e nere
de la balda nova età.
Combattiam per la giustizia
con l’ardor della speranza
per l’umana fratellanza,
per l’umana libertà.
Su moviamo alla battaglia….
Combattiam finché un oppresso
sotto il peso della croce
levi a noi la flebil voce,
fin che regni un oppressor.
Splenda in alto il sol lucente
de la Idea solenne e pia…
Viva il sol dell’Anarchia,
tutto pace e tutto amor.
Su moviamo alla battaglia….
Bibliografia
Pietro Gori, Battaglie: versi, 2. ed., La Spezia, Cromo-tipo La Sociale, 1911.
Costantino Lazzari, L’Inno dei lavoratori, “Almanacco socialista italiano”, 1918.
Costantino Lazzari, Memorie, a cura di Alessandro Schiavi, “Movimento operaio”, a. 4, n. 4, lug.-ago. 1952.
Cesare Bermani, Guerra guerra ai palazzi e alle chiese…: saggi sul canto sociale, Roma, Odradek, 2003.
Santo Catanuto, Franco Schirone, Il canto anarchico in Italia nell’Ottocento e nel Novecento, 2. ed., Milano, Zero in condotta, 2009.
[Archivio di Stato di Pesaro, Tribunale penale di Pesaro, Atti penali, 1894, f. 559 del Registro generale dell’ufficio del procuratore del re]
[1] Costantino Lazzari, L’Inno dei lavoratori, “Almanacco socialista italiano”, 1918, cit. in Cesare Bermani, Guerra guerra ai palazzi e alle chiese…: saggi sul canto sociale, Roma, Odradek, 2003, p. 83.
[2] C. Lazzari, Memorie, a cura di Alessandro Schiavi, “Movimento operaio”, a. 4, n. 4, lug.-ago. 1952, ivi, p. 89.