Pistacoppi antifascisti
Intervista di Vittorio a Claudio Sopranzetti
Il 10 febbraio Macerata è stata attraversata da una manifestazione storica.
30.000 persone provenienti da tutte le Marche e da molte città d’Italia hanno rifiutato con chiarezza fascismo e razzismo, che sono tornate ad essere ideologie accettate o tollerate da buona parte della classe politica italiana. La rappresaglia razzista del fascista Luca Traini dopo il brutale omicidio di Pamela Mastrogiacomo, di cui sono accusati dei piccoli spacciatori nigeriani, ha scoperchiato le contraddizioni profonde della provincia marchigiana. La pace e la tranquillità pubblicizzate dagli spot idioti delle campagne turistiche nascondono un rancore marcio, la teppa fascista armata, la criminalità nigeriana che sguazza tra proibizionismo e corruzione sociale. Di fronte a questa serie di tragedie la classe politica locale e nazionale ha iniziato a balbettare, l’antifascismo ufficiale ha aderito alla retorica repressiva di Minniti e Renzi. L’antifascismo militante e popolare ha risposto.
Antifa Macerata è una realtà recente, nata da una palestra popolare e dalla strada. Quel sabato era in piazza con uno spezzone combattivo e giovane. Nonostante la durezza della giornata, sono riusciti a strapparci un sorriso verso il futuro quando dietro alla cappa dei fumogeni è spuntato il logo “Pistacoppi antifascisti”(“pistacoppi” è il nome dialettale con cui vengono chiamati i numerosi piccioni presenti a Macerata e quindi, per analogia, anche gli abitanti della città).
Macerata. Prima e dopo la lunga settimana dall’omicidio di Pamela alla manifestazione antifascista del 10 febbraio. Che cos’è diventata la vostra città? Esiste una particolarità territoriale oppure è lo specchio della “provincia” italiana?
Questa è una riflessione complessa, che stiamo facendo anche noi. Per certi versi ovviamente Macerata ha le sue caratteristiche, che riflettono quelle della classica cittadina italiana tranquilla: non stiamo parlando di un territorio di grosso conflitto sociale, qui ci sono decenti tassi di occupazione, un livello economico e culturale medio alto e forse proprio queste caratteristiche rendono tutta la situazione della settimana appena trascorsa ancora più inquietante. Stiamo comunque parlando di una realtà in cui la gente sta bene. Non siamo in una città come Roma con un sacco di problematiche e una radicata presenza storica fascista, né in territori con una intensa immigrazione. Inoltre siamo in uno dei fulcri nevralgici storici del PD, della sinistra parlamentare italiana, con una presenza di associazionismo fortissima, una presenza della Chiesa cattolica fortissima, un territorio che è stato usato come modello di integrazione. Tra l’altro ho letto che le Marche sono una delle regioni con il più alto tasso di moschee per abitanti musulmani. Insomma, all’apparenza non ci sarebbero i presupposti per vedere accadere questo tipo di cose e, soprattutto, per vedere certe reazioni popolari. E invece quando senti certi commenti al bar ti chiedi se per caso siamo finiti in una cittadina della Baviera nazista nel 1936. Ma proprio perché non è dove te l’aspetti, la situazione diventa particolarmente significativa e richiede un’analisi un po’ più approfondita di quelle che sono le forme del fascismo oggi.
Mi viene in mente il romanzo di Ballard, “Regno a venire”, dove c’è una folla normale che esce dalla sua zona di comfort e comincia a esercitare violenza, prima verbale e simbolica poi anche fisica contro l’immigrato. Sembra un po’ questa storia…
L’impressione è questa. O anche quella del film Dogville. Una realtà collinare, benestante, di provincia, dove il PD ha dominato e continua a dominare, ma dove trovi queste contraddizioni mostruose che secondo me sono lo specchio dell’imbruttimento, della rincorsa della sinistra parlamentare italiana verso la destra. E parlo di un’ideologia di destra pesante, neanche sociale, dentro il guscio vuoto di un’apparente realtà di sinistra.
Quando parli di imbruttimento io penso anche al delitto da cui è partita la concatenazione di eventi, cioè alla brutalità dell’omicidio di Pamela con tutto il corollario di violenze maschili che l’hanno favorita e causata. Tutta questa storia sembra un corpo estraneo a Macerata e invece da quanto mi dici è una specie di specchio, di doppio, di questa città benpensante.
La sensazione è questa ed è una sensazione che si lega molto alla vecchia analisi del fascismo in Italia come di un cancro dentro un corpo sano, per cui eliminato quel cancro il corpo va avanti in salute. In questa settimana ci siamo accorti che non è così. Ci sono forme radicate di de-umanizzazio¬ne della diversità. Sia come è stato trattato il delitto di Pamela, sia la mancanza totale di dimensione umana delle vittime di Traini sono un’evidenza chiara: i loro nomi quasi non li conosce nessuno, non abbiamo vissuto quello che i media ci hanno proposto dopo gli attentati degli ultimi anni, cioè la faccia delle vittime, la loro storia come centro della discussione. Qui le vittime sono state completamente abbandonate a loro stesse, senza la presenza delle istituzioni, senza nessuno che le andasse a trovare. Sono state cancellate dall’immaginario collettivo, proprio de-umanizzate. Questo è il meccanismo che ha portato Traini alla caccia all’immigrato indiscriminata, perché non è la persona X che ha fatto l’atto Y, ma è questa forma senza faccia dell’immigrato che diventa colpevole di tutti gli atti degli immigrati. Di conseguenza non può neanche essere vittima, rimane sempre un immigrato informe.
Un altro aspetto interessante è il ruolo della stampa locale e della narrazione delirante che è stata costruita prima attorno al delitto di Pamela, poi attorno alla sparatoria di Traini e infine alla manifestazione. Qual è il ruolo di questo tipo di comunicazione locale, anche dei social network, e voi, come antifascisti, come avete cercato di intervenire?
In effetti, come dici, c’è stata una sequenza molto serrata di rappresentazioni deliranti. Per prima cosa il tentativo di tribalizzare il crimine dell’uccisione di Pamela e del trattamento del suo corpo, con un tentativo da parte della stampa di rimandarlo a pratiche tribali, nigeriane, al vudù: cose completamente campate in aria. Poi, almeno per le prime tre o quattro ore dall’inizio della sparatoria, tutti i giornali locali hanno scritto di regolamento di conti interno alla mafia nigeriana senza avere alcun tipo di fonte, basandosi assolutamente sul niente.
In realtà le forme di giornalismo cittadino come “Picchio news” e “Cronache maceratesi” sono nate in maniera molto aperta e, potenzialmente, estremamente democratica. Da parte nostra, rispetto a questo, dobbiamo anche cominciare a puntare il dito davanti allo specchio perché non ci siamo sporcati le mani, nessuno di noi ha forse compreso pienamente che lì si sarebbe fatta l’opinione pubblica locale, abbiamo completamente trascurato questo aspetto lasciandolo in mano a tutt’altro tipo di forze e discorsi. Invece forme di fascismo più o meno organizzate e dichiarate sono entrate in questa dinamica e l’hanno fatta loro. “Macerata ai maceratesi”, ad esempio, è una realtà insignificante sul territorio ma ha un’esposizione mediatica mostruosa, proprio perché hanno fatto questo lavoro di comunicazione pubblica, che per loro è anche più semplice dal momento che quella comunicazione coincide o si allinea a tutta una serie di egemonie culturali che si stanno formando anche al di fuori di quello che è il fascismo organizzato. Se Renzi dice “aiutiamoli a casa loro”, allora si apre uno spazio di attenzione per cui chiunque si allinei su quel discorso ha una facilità comunicativa spicciola fortissima. Poi ci sono anche le varie pagine sui social network, del tipo “Sei di Macerata se…”, con un identitarismo fortissimo e dibattiti spesso grossolani, pieni di insulti, pieni di notizie false e di false foto che vengono fatte circolare. In questi giorni, almeno, si nota molta più presenza di gente che si è accorta di quanto sia basso il livello e che cerca di mettere in discussione certi tipi di rappresentazione.
Per me la cosa impressionante è come questi discorsi beceri si riproducano in città. È evidente che non fanno che solidificare una certa forma di analisi: tanta gente ha sempre pensato “immigrati merda, che se ne stiano a casa loro”, però dieci anni fa al bar aveva vergogna di dirlo a voce alta, mentre ora c’è un allargamento delle maglie per cui questi discorsi sono possibili e accettabili e quindi si riproducono. Un po’ come quello che ho visto in Inghilterra dopo la Brexit: una volta che la Brexit ha vinto, tutta una serie di forme di xenofobia, anche contro gli italiani e i migranti bianchi, sono state rese accettabili. O penso a quello che è successo negli Stati Uniti con Trump: il limite di quello che ieri era inaccettabile si allarga fino a diventare all’ordine del giorno. Come dicevo, la componente mediatica in tutto questo, anche dei piccoli giornalini locali, è fondamentale e da non sottovalutare.
Tu hai seguito la situazione dal punto di vista di Antifa Macerata, ci racconti come si è formato questo gruppo?
La storia di Antifa Macerata è ancora l’infanzia di un movimento che si è trovato ad avere un ruolo da adulto in questa situazione e se l’è preso con i limiti ma anche con la bellezza di questo passaggio. Antifa Macerata muove i primi passi dentro una palestra popolare di Macerata, nata cinque anni fa come molte palestre popolari da gente che non si sentiva pienamente rappresentata dai centri sociali e voleva fare un intervento territoriale, che inizialmente è stato molto forte sulla lotta alla tossicodipendenza, problema storicamente molto sentito a Macerata. L’idea era: meglio stare a rota di palestra che di roba. Sin dall’inizio si erano definiti toni antifascisti e antirazzisti, ma in maniera abbastanza blanda e generica. In seguito alcune delle persone fondatrici della palestra popolare hanno cominciato a prendere parte a momenti più spiccatamente politici, di protesta, hanno partecipato a diverse manifestazioni in Italia e all’estero. Ma, in definitiva, si sono ritrovati un po’ insoddisfatti delle manifestazioni di massa senza un lavoro territoriale e, in particolare dopo l’uccisione del ragazzo nigeriano a Fermo l’anno scorso, hanno sentito la necessità di una presenza antifascista militante e hanno deciso di mettere su questo Antifa Macerata. La dinamica è un po’ complessa, anche perché nella palestra c’è chi ha accolto questa scelta a braccia aperte, ma anche chi l’ha sentita come una cosa troppo politica. Anche la composizione di classe sociale è molto interessante, molto variegata, trasversale, molto meno studentesca di quella dei centri sociali, anche nelle sue forme e nei suoi linguaggi. La sua forza è anche questa, cioè di non essere ancorati a un linguaggio vecchio, di movimento, che non ha troppa presa in questo momento.
Dall’omicidio di Pamela alla manifestazione non c’è stata pace nelle strade di Macerata, sappiamo di almeno un paio di momenti forti di contestazione antifascista in città. Come si è sviluppato questo percorso?
C’è da dire che i nuclei dichiaratamente fascisti in città sono pochi e piccoli, ma dopo gli eventi di questi giorni è evidente a tutti che sotto covava qualcosa di molto più dilagante. Va bene che eravamo tutti distratti dalla manifestazione del 10 febbraio ma è proprio quando si è distratti che queste cose succedono e quindi si è deciso di agire su due dimensioni.
Da una parte mettere pressione, alzare la tensione nei confronti di bar e realtà locali che lasciano spazio di azione ai movimenti neofascisti, dall’altra portare la presenza popolare in piazza ed è quello che è successo domenica 4 febbraio con un presidio spontaneo, molto più allargato, molto meno aggressivo, per dire che le piazze sono nostre. In una situazione del genere, nei giorni immediatamente successivi non poteva essere fatta passare nel silenzio la presenza in città di Casapound [mercoledì 7, ndr.] e il giorno dopo quella di Forza Nuova caratterizzata da un discreto gruppetto di persone estremamente violente presenti nel territorio.
In realtà in città è come se non ci si fosse resi conto del livello di violenza dell’atto di Traini. Far manifestare Forza Nuova, che è stata l’unica forza politica a rivendicare l’atto, lo possiamo paragonare a dare uno spazio di manifestazione all’Isis a Nizza dopo l’attacco, anche se tutto in forma più casareccia. Noi abbiamo avuto pesanti litigate con i giornalisti, anche nazionali, perché era davvero allucinante che su tutti i giornali del mondo qualsiasi articolo sugli eventi di Macerata, tutti, dal primo all’ultimo, parlasse di terrorismo neofascista e invece sui giornali italiani si parlava di un matto. La distanza tra il tipo di dibattito politico che c’è su questi eventi in Italia e la loro rappresentazione internazionale è devastante.
Così siamo arrivati alla manifestazione di sabato 10 febbraio. Bisognerà fare un’analisi approfondita sul tentativo del ministro dell’interno Minniti di creare una “strategia della tensione” rispetto alla presenza in piazza. E anche interpretare la dinamica che parte da un attentato dichiaratamente fascista e dalla sua rivendicazione da parte di un movimento che ha delle relazioni per lo meno ideali con l’esecutore dell’attentato, seguita dall’equiparazione degli atti di una parte e dell’altra, per cui a chi va a contestare un bar che offre spazio ai fascisti si dice “siete come Traini”, e termina con una violazione molto pesante del diritto di manifestare e, appunto, una “strategia della tensione”: si mette paura alla popolazione e si allestiscono tutti i presupposti per una manifestazione violenta, poi quando la manifestazione violenta avviene parte la stretta di repressione e di controllo statale sui territori. Pensiamo che tutto questo sia un dispositivo che si sta attuando e una modalità che verrà probabilmente riprodotta altrove.
In questo senso però è andata bene, c’è stata una capacità di rompere questo schema.
Benissimo. Speriamo che questa analisi che ha contribuito alla riuscita della manifestazione sia un messaggio chiaro al tentativo di Minniti. Dobbiamo ricordare che in primis c’è stato l’invito a non manifestare da parte del sindaco di Macerata, che va bene lascia il tempo che trova, poi una nota della prefettura che non avrebbe nessun ruolo nella gestione delle piazze, che spetta direttamente alle questure. Si è riprodotto un tentativo che negli ultimi anni avevamo visto a Ventimiglia, classico esempio di come si sperimentino disposizioni ai margini e poi si applichino anche fuori dai margini, in questo caso non in una grande città ma a livello intermedio di una cittadina di provincia. La prefettura ha fatto una nota ai giornali e poi una nota pubblica usando di nuovo la parola “invito” ma di fatto, essendo passata da quei media di cui parlavamo prima, è stata presa come una proibizione della manifestazione senza alcun sostegno giuridico.
In effetti questa notizia è girata per un paio di giorni, con tutte le caratteristiche di una fake news…
Esatto. E ha generato una serie di conseguenze profonde. Il ritiro di Anpi, Arci e Cgil ha poco a che fare con questo perché riguarda più delle dinamiche loro interne, ma quello che ci interessa è l’evidenza di realtà nazionali che tentano di arginare e le corrispondenti realtà locali che non le stanno a sentire. Comunque, se volevano proibire la manifestazione avrebbero di fatto dovuto dichiarare un micro stato di emergenza, che però ha tutta una serie di conseguenze legali profonde a partire dal fatto che le autorità locali sono esautorate dal controllo del territorio e interviene il Ministero dell’interno. Questo, chiaramente, in piena campagna elettorale era impensabile e quindi il trucchetto di Minniti è stato quello di mettere pressione, in forme completamente anticostituzionali, per tentare di spingere la questura ad agire. La questura ha lungamente atteso, fino a che venerdì sera alle 9.00 c’è stato un incontro tra prefettura, questura, sindaco, rappresentanti dei centri sociali, Anpi, Arci e Cgil, in cui essendo chiaro che non si poteva proibire la manifestazione, andava deciso che percorso fare. A noi il percorso definitivo c’è stato comunicato solo verso le 11.00 di venerdì sera.
Certo che hanno tentato in tutti i modi di renderla ingestibile. Non c’erano bagni chimici, hanno fatto chiudere tutti i bar, hanno tolto tutti i cassonetti, ci hanno messo in una situazione in cui era facilissimo lasciare la popolazione scontenta per il comportamento dei manifestanti. In tutto questo abbiamo notato una frattura abbastanza chiara tra le istituzioni. Chi sul territorio ci vive e lavora, anche dalla parte delle istituzioni, ha capito che non aveva proprio alcun senso questo attacco frontale e l’ha pagato perdendo il proprio posto… il compagno questore… [ride].
Che persone c’erano in corteo? Che composizione sociale hai visto, legata alla città, alle Marche?
Anche se noi siamo stati abbastanza stabili nel corteo, non abbiamo girato tantissimo, posso dire di aver visto gente che non vedevo da una vita, di movimenti diversissimi, gente che dai movimenti era uscita, associazionismo, persone in realtà non abituate, in un territorio come il nostro, a stare in piazza. Una sorta di riemersione, che speriamo di riuscire a mantenere, di tutta una serie di forze sociali diversissime nei loro metodi e linguaggi. Ovviamente ho visto una grossissima presenza nazionale, unita a una timida presenza dei maceratesi. Timida nel senso che c’erano tantissime persone che guardavano la manifestazione dall’alto, qualcuna piano piano è poi scesa, ma c’erano anche forze e persone che hanno deciso comunque di starci, nonostante siano state impaurite dal clima di tensione costruito nella settimana. Non ci illudiamo, non era una grandissima presenza locale; il valore della manifestazione penso sia stato su una scala più ampia di quella locale. Su Macerata ha avuto una funzione come di distensione: venerdì le strade erano deserte, si avvertiva la paura di stare in strada, domenica era un’altra Macerata, più quotidiana, più viva. Anche questo è importante. Insomma, possiamo dire di aver vinto una battaglia giocata contro il mastro dello scacchiere, Minniti, ma adesso c’è una battaglia più quotidiana da portare avanti, di quelle coi pedoni che, però, forse sono pure più arcigni…
Ringraziamo Giovanni Martone, Valeria Tinti, Yara Nardi e Martina Romano per le foto concesse.