Una casa aperta, anzi due
Intervento di Stefano Boni
Durante i primi giorni di agosto del 2017 si è svolto a Roncitelli, piccolo paese di campagna sulle colline di Senigallia, un incontro informale che ha riunito cento persone per due giornate conviviali in cui si è discusso di un nuovo progetto di comunità intenzionale. L’iniziativa nasce attorno a due famiglie che hanno deciso di vivere un quotidiano meno isolato, condividendo spazi e tempi di vita. Vivono in due nuclei abitativi vicini e collegati da un terreno agricolo biologico, in una zona con una ricca storia sociale e un bellissimo quanto fragile ecosistema rurale. Vogliono aprire le proprie case a una socialità allargata ad altre famiglie e singoli basata sulla condivisione, la produzione artistica e contadina, l’ecologia e l’attenzione a forme di educazione rispettose della libertà e autonomia dei bambini. Il progetto è tuttora un cantiere aperto che coinvolge molte persone e rappresenta il tentativo di unire nella vita quotidiana passioni, lavori, responsabilità politica e personale. Stefano Boni è intervenuto come amico e come antropologo attento al rapporto tra la dimensione individuale e quella collettiva nei processi politici di liberazione che sono in corso nella nostra società. Il suo breve discorso è stato seguito da una lunga assemblea (e da una festa ancora più lunga…) che ha messo a confronto tante esperienze concrete maturate in altri luoghi con i desideri degli abitanti del posto che cercano attivamente, e non sempre con successo, nuovi punti di riferimento e relazioni nel territorio delle Marche. Stefano ha proposto alcune idee preziose per evitare i problemi più comuni che sorgono in questo tipo di esperienze e per coniugare spontaneità e informalità con il necessario senso pratico. Su queste pagine continueremo a seguire lo sviluppo di questo progetto a Senigallia e, come per le esperienze di autocostruzione che abbiamo iniziato a conoscere nel numero 8, vorremmo allargare il nostro sguardo ed ascolto ad altre esperienze che stanno nascendo nei nostri territori e che racconteremo nei prossimi numeri.
L’idea principale di oggi è quella di condividere tra noi e cercare di concretizzare, per quanto possibile, idee e progetti che potranno nascere e svilupparsi in questo contesto. Vi racconto intanto, brevemente, la mia esperienza personale, fatta di due periodi di vita collettiva. Il primo, dal 1999 al 2003, a Casa Gatti, vicino a Siena. Eravamo fondamentalmente giovani, con anche un po’ di bambini, ed è stata una bella esperienza, abbastanza “festaiola” ma si facevano anche tante cose insieme, dall’orto a iniziative di divulgazione e altro. Poi, dal 2011, sempre vicino a Siena, nel comune di Murlo, vivo in un’esperienza più familiare, che comprende adesso tre famiglie con sei bambini. In tutti questi anni, un po’ per mio interesse personale, un po’ come riflessione di ricerca, mi sono continuamente interrogato su questo bisogno di progettualità collettiva e comunitaria che si sta diffondendo in tutta Italia, ragionando sugli aspetti positivi ma anche sulle cause di molti fallimenti.
La ragione fondamentale di questa voglia di collettività è secondo me l’insoddisfazione rispetto al sistema esistente in cui apparentemente siamo super liberi, ma in realtà ci sono binari ben precisi in cui si dovrebbe percorrere la propria vita. Un primo aspetto di questa insoddisfazione è l’individualismo: l’idea di percepirsi come individui scissi da dinamiche di collettività. Riprendere il senso dello stare insieme, del costruire insieme, di essere comunità permette invece il mutuo appoggio, permette cioè di venirsi incontro quando ci sono momenti di difficoltà dei singoli, permette ai bambini di crescere insieme, che è una cosa che si sta perdendo sempre di più ma che per i bambini è fondamentale, cioè crescere in una comunità di bambini piuttosto che davanti a uno schermo, permette infine di percepire la piacevolezza del lavoro collettivo, fatto con persone a cui vuoi bene e che senti un po’ come fratelli e sorelle. Tutte queste sono cose che rendono la vita più piacevole.
Un secondo motivo di insoddisfazione è che spesso siamo ridotti al ruolo di consumatori. La libertà è una libertà di consumo piuttosto che un protagonismo nel crearsi un percorso di vita. Stando insieme si riescono invece a fare cose che da soli non si potrebbe, si riesce a riassumere un protagonismo anche nella parte produttiva, nella parte dell’organizzazione, della proposta culturale o politica che sia, e anche nel fare artigianale che è stato tendenzialmente devastato dall’industrializzazione, messo proprio fuori mercato, quando invece è qualcosa che ci fa sviluppare delle competenze che poi ci torneranno utili sotto diversi punti di vista.
La terza ragione di insoddisfazione riguarda la produzione che è sempre più tossica. Mi riferisco alla produzione delle multinazionali e delle grandi industrie, che di certo non genera benessere. I loro prodotti non sono sani, non sono pensati per noi ma per fare profitti, mentre ripensare a delle forme di autoproduzione che seguano la nostra morale, la nostra etica, è qualcosa che secondo me libera degli spazi di immaginazione e creatività, oltre alla soddisfazione di vedere che insieme agli altri si possono riprendere in mano pezzi della propria esistenza.
Alcune di queste esperienze di vita collettiva vanno bene, creano collettività, auto-reddito, permettono di promuovere una cultura alternativa. Un altro grande valore è che sono esperienze prefigurative, cioè che attraverso il piccolo portano a immaginare come potrebbe essere una società gestita in quel modo, una società di mutuo appoggio piuttosto che una società di concorrenza o meritocratica, una società di produzione artigianale piuttosto che di produzione industriale. È chiaro che non la si realizza dall’oggi al domani, ma intanto, nel piccolo, si prefigura un’alternativa sistemica all’esistente. Questo è importante perché oggi abbiamo proprio difficoltà a immaginare un’alternativa reale: nel costruire piccole cose la si comincia invece a mettere a fuoco.
Detto questo, bisogna però essere consapevoli che raramente queste realtà si consolidano nel corso del tempo. È vero che spesso un progetto che fallisce rinasce poi sotto altre forme, ma questa dinamica deve portarci a ragionare su quali sono le cause di questi fallimenti almeno momentanei. Dunque, perché falliscono? La prima delle difficoltà ricorrenti che ho visto è l’eccesso di riflessione astratta. Spesso i gruppi nascono sul teorico, iniziano a discutere di grandi principi etici e finisce che ci si scazza sul nulla, perché ancora non c’è nulla di concreto. Questo investimento emotivo sul “come dovrebbe essere” è una causa di fallimento anticipato, prima ancora di riuscire a partire. Perciò il mio primo consiglio è di cominciare a fare, anche perché chi ci sarà nel fare le cose non è probabilmente quello che aveva parlato nell’assemblea ideologica iniziale, e anche perché i problemi reali del fare le cose insieme li vedi quando le fai piuttosto che quando ne parli. L’invito è quindi a sperimentare in maniera dinamica, nel fare piuttosto che nel pensare.
Il secondo problema che emerge in tutte le esperienze è la cura della parte relazionale ed emotiva del gruppo. È una cosa fondamentale, che spesso anch’io all’inizio sottovalutavo: “oddio adesso tocca fare l’autocoscienza, raccontarsi gli scazzi personali…”. I gruppi sopravvivono se ci sono delle relazioni trasparenti, relazioni di sintonia emotiva, che non vuol dire dover andare d’accordo con tutti, né tantomeno che tutti devono diventare i tuoi migliori amici, ma vuol dire saper affrontare le difficoltà relazionali, metterle a fuoco e andare oltre. Sono le relazioni a costituire il gruppo e se le relazioni per una qualche ragione diventano bacate, tutto il gruppo collassa, a volte senza neanche dirsi la vera ragione per cui è collassato. Il processo di gestione del conflitto si può fare in mille modi, soprattutto con delle riunioni relazionali. Noi facciamo riunioni ogni tanto: una su due è relazionale, l’altra è organizzativa. Ci possono volere anche diverse riunioni per sciogliere dei nodi sui conflitti relazionali.
C’è poi la questione della proprietà. Questo è un altro ricorrente tema di conflitto che tendenzialmente si risolve adottando delle regole molto chiare. Si può anche iniziare sperimentando, ma a un certo punto bisogna che tutti abbiano chiare le regole, perché lasciare allo spontaneismo e all’improvvisazione va bene sul breve periodo ma sul lungo termine tende a creare scontenti. Quindi: chiarezza.
Un’altra questione fondamentale è che il gruppo richiede assunzione di responsabilità individuali e non delega di problemi individuali al gruppo. A volte ci si immette nel gruppo per scaricarsi di problematiche individuali: ho difficoltà a gestire i bambini e mi illudo che il gruppo in qualche modo risolva la mia problematica; ho difficoltà a trovare un salario e mi metto in gruppo sperando di… Questi sono atteggiamenti che vanno bene solo se c’è accanto anche un’assunzione di responsabilità. Mi devo chiedere di che cosa ha bisogno il gruppo? Come contribuisco al progresso del gruppo? Queste sono domande importanti, che valgono anche per le piccole cose. Ad esempio: la giornata di oggi come è stata organizzata? Quali sono stati gli sforzi per metterla in piedi? Che cosa posso fare affinché chi s’è sbattuto sia un po’ più leggero, perché chi ci ha messo i soldi possa rientrare? Qual è la responsabilità che mi posso prendere per rafforzare il gruppo?
In un contesto come quello dove siamo ora, in cui ci sono situazioni abitative accanto a progetti collettivi che nasceranno, quanto detto significa distinguere la parte domestica dalla parte progettuale, in modo da non far cadere solo su chi ci vive la fatica (anche a volte la pesantezza) della gestione della parte progettuale collettiva. Anche solo per organizzare una festa il lavoro è molto, a beneficiarne sono in tanti ma non è che chi abita qui faccia di lavoro il “festaiolo”, ha anche lui la sua vita e i suoi impegni. In generale, il gruppo si deve quindi interrogare su come fare per alleggerire la pesantezza di una situazione domestica che si apre a progettualità collettive.
Una modalità organizzativa che secondo me può funzionare molto bene è il lavoro per gruppi di affinità. Evitare cioè di pensare a una sorta di regia centrale di tutto quanto, ma coinvolgere le persone su progettualità specifiche sulle quali hanno voglia di essere coinvolte. Ci sarà chi si prende la responsabilità di lavorare per il forno, chi per l’orto collettivo e così si creano vari gruppi di gestione che nel loro ambito sono sovrani. Mettere tutto insieme diventa invece parecchio più complicato. Ecco, questi sono in estrema sintesi i piccoli consigli che ho per gli amici e le amiche di Roncitelli.