La critica antindustriale e il suo futuro
Di Javier Rodriguez Hidalgo
Sulle nostre pagine abbiamo già dato spazio a diversi contributi di critica antindustriale. Ora, con questo articolo di Javier Rodríguez Hidalgo, cerchiamo di approfondire alcuni passaggi dello sviluppo che tale critica sociale ha attraversato negli ultimi decenni e di delineare quali possibili ipotesi di cambiamento radicale ci consenta di intravedere, pur nelle enormi difficoltà che intralciano le prospettive rivoluzionarie nel tempo presente. Il rifiuto dell’ideologia del progresso e la messa in discussione di scienza e tecnologia in quanto strumenti né neutrali né di emancipazione hanno radici in pensatori come Jacques Ellul o Günther Anders ma, in tempi a noi più vicini, Hidalgo si sofferma in particolare sui contributi apportati dal gruppo dell’Encyclopédie des Nuisances. Dedica inoltre un capitolo a mostrare sotto quali forme questa corrente di pensiero si sia diffusa in Spagna: non abbiamo tradotto questa parte, che riserva ampio spazio all’esperienza del gruppo Los Amigos de Ludd e all’omonima rivista (2001-2004), i cui sette numeri sono stati tradotti in italiano da Acrati (acronimo che sta per Aggreg-azione contro la rovinosa avanzata della tecnologia industriale). Sempre per quanto riguarda lo specifico contesto in lingua italiana rimandiamo anche al testo di una relazione del 2005 a cura del Centro di iniziativa Luca Rossi di Milano, “Critica della scienza e della tecnologia nei movimenti dagli anni Settanta a oggi”, che si può facilmente reperire anche online. Il testo di Hidalgo, scritto nel luglio 2005, è stato pubblicato sulla rivista «Ekintza Zuzena», n. 33, gen. 2006 ed è circolato subito dopo in una prima traduzione italiana fatta da Marco Camenisch dal carcere di Regensdorf. Alcune note al testo sono nostre.
In questi ultimi anni, una critica sociale che possiamo definire antindustriale e antiprogressista ha conosciuto una importante diffusione. I suoi tratti principali sono: un rifiuto categorico dell’idea di progresso; un giudizio critico rispetto alle promesse della modernità; una completa messa in discussione delle potenzialità liberatorie della tecnologia; la constatazione del disastro ecologico e umano in corso; la contestazione della pretesa neutralità della tecnica. Anche se questa carrellata è troppo generica, cercherò di passare in rassegna le obiezioni più comunemente sollevate contro queste idee ed esprimerò le mie proprie critiche. Non nascondo, per evitare accuse a posteriori, di essere d’accordo, in sostanza, con questa critica antindustriale. Per diverse ragioni non parlerò qui del primitivismo. Quella che viene chiamata critica “anti-civilizzazione” o “anti-addomesticamento” non sarà trattata in questo articolo.
La chiave del disastro
Theodore J. Kaczynski, meglio conosciuto come Unabomber[1], ha reso pubblica la sua critica della società industriale in circostanze molto particolari. Poco prima del suo arresto, avvenuto il 3 aprile 1996, è riuscito a fare in modo che due dei quotidiani più importanti degli Stati Uniti pubblicassero integralmente il suo manifesto, intitolato La società industriale e il suo futuro, firmato Freedom club[2]. L’impatto mediatico della cattura di Kaczynski aiutò enormemente la diffusione delle sue tesi sull’evoluzione della società tecno-industriale, ma le discreditò assimilandole ai deliri di un pazzo omicida. In sostanza, Kaczynski afferma che la società industriale, obesa, cieca e appesantita dalla zavorra delle sue inerzie, corre verso la catastrofe, e che i radicali dovrebbero sfruttare l’occasione che offrirà loro il crollo del sistema per ricostruire una società più umana, fondata su comunità più ristrette e su un livello di sviluppo tecnico accessibile, non gerarchizzato né basato su un’eccessiva divisione del lavoro. Egli scarta ogni possibilità di riforma del sistema e rifiuta l’idea che ci possano essere delle tecnologie emancipatrici. Queste riflessioni sono accompagnate da uno duro attacco del gauchismo e del progressismo, e da alcune osservazioni sulla tecnica in generale. Per Kaczynski, la sola lotta prioritaria dev’essere quella che mira a distruggere il sistema industriale. Tutte le altre, a paragone, sono insignificanti.
Da allora, il Manifesto di Unabomber, come viene generalmente chiamato, è circolato molto. Il suo merito principale è di presentare le cose con una sorte di innocenza davvero inusuale nella critica sociale, solitamente incline al conformismo militante o all’auto-indulgenza. Il suo principale difetto è che sembra credere nelle possibilità salvifiche che porterebbe con sé il collasso della società industriale. È altrettanto chiaro che il suo manifesto ha avuto l’effetto di una bomba (scusate il facile gioco di parole) nel mondo della critica ecologista radicale, costretta a rompere con ogni fantasia riformista e a dotarsi di una certa coerenza teorica quanto allo stato attuale della società tecnologica. In altri testi posteriori, pubblicati col contagocce, Kaczynski ha insistito sulle idee fondamentali de La società industriale e il suo futuro. La novità di maggior rilievo è che si è mostrato talvolta convinto della necessità di abolire non solo il sistema tecno-industriale, ma anche la civilizzazione nel suo insieme, il che ha facilitato l’adozione del suo discorso da parte di alcuni primitivisti.
In una forma molto più lenta e silenziosa si è fatta strada la critica elaborata dalla parigina Encyclopédie des Nuisances (EdN). L’EdN ha debuttato nel 1984 come collettivo editore dell’omonima rivista. Fino al 1992, anno di pubblicazione dell’ultimo fascicolo, sono usciti quindici numeri, tredici dei quali prima del 1989. In seguito, le edizioni dell’Encyclopédie des Nuisances, fondate nel 1993, hanno dato alle stampe una ventina di libri (tra i quali una traduzione francese de La società industriale e il suo futuro di Kaczynski) che approfondivano gli elementi di critica antiprogressista già presenti nella rivista. Per ben comprendere le idee dell’EdN bisogna sapere che il termine nuisances – “effetti nocivi” o “nocività” – non designa solo le conseguenze della vita moderna (contaminazione, rumore etc.) ma l’insieme dei danni che un sistema sociale concreto, il capitalismo industriale, infligge agli esseri umani. Il lavoro salariato, per esempio, è uno degli effetti nocivi di questo sistema.
La critica dell’EdN prende di mira la modernità e qui il termine “critica” non va inteso come sinonimo di attacco, ma come intenzione di capire fino in fondo e mettere a nudo una realtà. Come Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’Illuminismo, gli “enciclopedisti” non negano un aspetto emancipatore nel progetto trasformatore della modernità, enunciato e promosso del secolo del Lumi, ma allo stesso tempo ne sottolineano il lato perverso: la foga razionalizzatrice e quantificatrice, l’ideologia del progresso, il disprezzo verso la tradizione, così come certe illusioni ereditate dalle epoche precedenti. Gli “enciclopedisti” constatano che è proprio questo lato della modernità che ha finito per imporsi e che dirige, incontrando sempre meno opposizione, il destino dell’umanità. Il problema è che il sistema totalitario che si è costruito nel corso del XIX e XX secolo, in parte derivato dal progetto dell’Illuminismo, e che può essere considerato come definitivamente “lanciato” a partire dalla Seconda guerra mondiale, governa come un despota solitario e fa tabula rasa di tutto ciò che l’ha preceduto, compresi i saperi e le capacità umane che permettevano di concepire un mondo più giusto e meno aberrante. La tecnicizzazione e la mercificazione sempre più spinte di ogni sfera della vita umana, sia sociale che personale, portano a credere che questo processo sia irreversibile. Allo stesso modo l’EdN denuncia qualunque speranza di liberazione tecnologica (a partire dall’informatica) come un deus ex machina irreale, una mistificazione che contribuisce a far accettare le imposizioni del sistema. Critica inoltre l’idea secondo la quale l’industria sarebbe qualcosa di neutrale, un semplice attrezzo che dovrebbe solo cambiare di mano per cessare di essere strumento di tortura e convertirsi in mezzo di liberazione.
Secondo l’EdN, gli esseri umani della nostra epoca sono più reticenti che mai all’idea stessa di emancipazione. La perdita dei saperi tradizionali, rimpiazzati da surrogati in forma di merci o servizi, rende il compito di trasformare la società molto più difficile. In effetti non resta più granché che meriti di essere autogestito: dal linguaggio alla cucina popolare, tutto è coinvolto nella degradazione industriale, ma il più grande successo di questo sistema è di essersi saputo rendere desiderabile ai dominati. Di fronte a questo, nemmeno la catastrofe in corso è di buon auspicio quanto a possibilità di liberazione. In un libro pubblicato dall’EdN alla fine del 2000, intitolato significativamente Après l’effondrement [Dopo il crollo], Jean-Marc Mandosio scriveva a proposito della tesi di Jacques Ellul sul collasso del sistema industriale: “è da molto tempo che ci troviamo in un «enorme disordine mondiale», in cui la contraddizione e lo smarrimento sono diventati la norma, senza che questo significhi la fine del «sistema tecnificato». Il moltiplicarsi delle crisi locali e del caos su grande scala rinforzano, paradossalmente, la coerenza del sistema nel suo insieme, che si nutre appunto di smarrimento e contraddizione, nei quali trova nuove forze per estendersi e perfezionarsi esasperando sempre più l’alienazione dell’individuo e la distruzione dell’ambiente. Quanti attendono che la società industriale crolli loro attorno, rischiano di dover subire ben prima il proprio stesso crollo, perché questo collasso, che si sta già consumando, non è quello del «sistema tecnificato», ma della coscienza umana e delle condizioni oggettive che la rendono possibile”[3].
Abbiamo qui la chiave del disastro che si produce ovunque e dal quale, secondo l’EdN, non ci dobbiamo attendere alcuna garanzia di trasformazione positiva: il sistema industriale trascina via con sé quella sensibilità umana che potrebbe giudicare negativamente lo stato di cose presente. Questa è l’autentica catastrofe. A differenza dei primitivisti, che sembrano entusiasmarsi della possibilità di un cataclisma di dimensioni mondiali (più sarà devastatore, meglio sarà), gli “enciclopedisti” rifiutano “la soddisfazione non dissimulata con la quale [certi teorici] parlano di crisi, di crollo, di agonia, come se possedessero qualche speciale assicurazione riguardo alla direzione di un processo che tutto il mondo spera porti finalmente a un risultato decisivo, un evento che chiarirà una volta per tutte l’ossessionante enigma dell’epoca, sia che abbatta l’umanità, o che la obblighi a raddrizzarsi”[4].
Non si tratta di inaugurare la moda dell’anti-industrialismo
Domandiamoci ora in quale situazione si trovi oggi la critica antiprogressista e antindustriale e quali obiezioni le siano state mosse. In primo luogo, come ci si può attendere, i più refrattari a queste idee sono i settori dell’ultrasinistra, che vengano dal marxismo o dall’anarchismo[5]. Per loro la rivoluzione non è nient’altro che un progetto che è sempre da riprendere partendo dal principio e negare la possibilità che possa scoppiare da un momento all’altro appare loro come un crimine di lesa umanità. Parlare di “società industriale” invece di “società capitalista” è ai loro occhi un passo indietro. Che la società industriale, tuttavia, distrugga le basi materiali che potrebbero permettere una successiva riappropriazione dell’esistente non sembra preoccuparli minimamente, dal momento che continuano a credere che le lotte attuali debbano puntare all’autogestione generalizzata etc.
Come sempre, dietro queste critiche c’è l’idea, più o meno esplicita, secondo la quale lo sviluppo tecnologico di una società è un processo neutro o, al massimo, subordinato esclusivamente agli interessi della classe al potere; basterebbe quindi che i consigli operai (o la “moltitudine”) si prendano in carico la situazione affinché la tecnica venga gestita in forma razionale. A questo si può replicare che la società industriale non tollera che un margine di gestione molto ristretto. Ad esempio, la gigantesca burocrazia non è una semplice escrescenza della società moderna, bensì un elemento fondamentale del suo funzionamento; per non parlare del fatto che l’attuale processo di divisone del lavoro crea un tipo di essere umano che non sa fare praticamente nulla, o quasi nulla, al di fuori del suo ridottissimo ambito lavorativo, di conseguenza sarebbe capace di “autogestire” solo le proprie attività… che nella maggior parte dei casi non possono esistere se non nel contesto della società capitalista. Infine, poco importa ai marxisti, malgrado la loro feticizzazione della Storia, che Marx ed Engels scrissero ne L’ideologia tedesca che “gli individui attuali debbono abolire la proprietà privata, perché le forze produttive e le forme di relazioni si sono sviluppate a tal punto da essere diventate, sotto l’imperio della proprietà privata, delle forze distruttive”[6]. Sono passati centosessanta anni da quando sono state scritte queste righe, ma ai marxisti di ogni sorta questo non interessa: una volta scoperta la pietra filosofale della critica sociale, cioè il fatto che viviamo in una società capitalista (o spettacolar-mercantile), non c’è null’altro da dire. Inoltre, ci sono quelli che si ostinano instancabilmente a salvare la teleologia di Marx, continuando a credere che “lo sviluppo delle forze produttive” continua a produrre, qua o là, le condizioni che permettono una rottura con l’esistente: al solito, come no, grazie all’informatica. Da qui la proliferazione di una vera e propria corrente di pensiero universitario (le cui teste pensanti più visibili sono Antonio Negri e Paolo Virno) che continua ad applicare alla lettera il principio del Manifesto del Partito comunista secondo il quale “le armi di cui la borghesia si è servita […] si ritorcono oggi contro la borghesia stessa”, etc. L’arma è in questo caso l’informatica, avatar postmoderno del general intellect marxiano.
Per quanto riguarda gli anarchici si può fare un discorso quasi analogo. È eloquente il fatto che essi non prendano in considerazione che un solo aspetto della questione dell’oppressione tecnologica, cioè l’aumento del controllo sociale attuato dalle nuove tecniche di vigilanza. Il dominio esercitato sulle nostre vite dallo sviluppo tecnico si riduce pertanto alle videocamere di sorveglianza, al programma Echelon[7], all’infiltrazione delle telecomunicazioni, etc. Sembra invece che sfugga loro il resto delle sottomissioni alla macchina industriale che conformano la quasi totalità della nostra vita quotidiana, a cominciare dall’onnipresenza dell’informatica, che è ancora più nociva proprio per la sua subdola immaterialità.
In secondo luogo, esiste una maniera di recuperare la critica dei danni inflitti dall’industrialismo riducendola a “un altro fronte di lotta”. Per molte persone, la devastazione causata dal capitalismo industriale non è che una strofa in più da aggiungere alla litania delle accuse contro il Sistema: no al fascismo, no al razzismo, no al patriarcato, no all’inquinamento, etc. L’importanza fondamentale del salto irreversibile compiuto da questa società è così ridotta al livello di un altro pretesto per giustificare il vittimismo. Inutile dire che questa visione aiuta moltissimo a dissimulare i danni i danni dell’ultramodernità; si veda per esempio l’infame analogia stabilita dagli hacker tra la “brevettabilità del vivente” e la “brevettabilità dei software”, come se le due cose fossero comparabili.
Un’altra obiezione, molto più onesta delle precedenti, che viene sollevata contro la critica antiprogressista è che questa non risulterebbe molto attrattiva a causa del suo pessimismo. Più che di un’attitudine pessimista, bisognerebbe parlare di una realtà oppressiva: qualificare i Los Amigos de Ludd[8] per profeti di sciagura, come viene spesso fatto, equivale a voler uccidere il messaggero. Tornerò poi sulla questione delle “illusioni rinnovabili” (evocate in un libro pubblicato dall’EdN), d’altronde ho l’impressione che la critica antiprogressista abbia ancora delle cose da dire al riguardo. Sembra infatti che questa critica non abbia ancora concluso il suo sviluppo, restandogli da compiere un lavoro di demolizione (di idee saldamente assestate) che è ben lontano dall’essere giunto a termine. Il suo interesse sta esattamente nel rifiutarsi di fornire uno slogan demagogico o una ricetta riassumibile in quattro parole tanto per guadagnare dei proseliti. Per il momento è già abbastanza prezioso cercare di superare gli approcci manichei o vittimistici e far appello alla ragione delle persone piuttosto che alla loro pancia.
In quanto alle obiezioni da considerare a proposito della necessità di questa critica antindustriale, ne vado a enumerare qualcuna. È evidente, in primo luogo, che non tarderà a incontrare il suo limite. In effetti, poiché la sua analisi parte dalla constatazione che non esiste oggi alcun soggetto rivoluzionario, e che le circostanze rendono sempre più difficile che un tal soggetto possa costituirsi (e niente lascia pensare che questa tendenza debba invertirsi in un prossimo futuro), diventa necessario domandarsi: e allora, cosa fare? Al di fuori dell’iniziativa individuale, in cui ciascuno può capire cosa fare per conservare un minimo d’igiene mentale nei limiti concessi dalla camicia di forza industriale, quale spazio resta per l’attività politica? Secondo Kaczynski, la presa di coscienza che può nascere tra il momento presente e l’insorgere del “disastro” sarà decisiva per un futuro cambiamento sociale. Ma questa attesa di una catastrofe (sociale, ecologica, umana) assomiglia a una nuova variante dell’idea determinista della “battaglia finale”, com’era per il vecchio movimento operaio. Al contrario René Riesel, in Del progresso nella domesticazione, considera che “delle occasioni inaspettate di rovesciare il corso delle cose, foss’anche solo il tempo di un lampo, restano sempre possibili in un sistema così imprevedibile per se medesimo”[9]. (Vale la pena segnalare che non troppo tempo fa Riesel ha passato diversi mesi in prigione per aver partecipato a delle azioni di sabotaggio di prodotti transgenici).
Detto questo, è giusto riconoscere che il termine “società industriale” è molto ambiguo: a partire da quale momento possiamo dire di essere entrati in una società di questo tipo? È difficile proporre una data; nelle sue Note sul Manifesto contro il lavoro del gruppo Krisis[10], Jaime Semprun sostiene che “bisogna ammettere che nel corso del XX secolo, diciamo tra Hiroshima e Chernobyl, abbiamo attraversato uno spartiacque storico” e Riesel, nella sua opera citata, scrive che “Auschwitz e Hiroshima possono essere considerati allo stesso tempo come un risultato, una matrice e una chiave di comprensione dei benefici dello sviluppo tecno-economico”[11]. Possiamo dunque supporre (sempre a partire da osservazioni come quelle esposte, dal momento che nessuno dei critici ha proposto una definizione stringente) che la società industriale non si è instaurata agli inizi del XIX secolo con la cosiddetta Rivoluzione industriale, ma che ha dovuto attendere il XX secolo per consolidarsi; non solamente sviluppando le basi materiali che le hanno permesso di perpetuarsi come sistema esclusivo – cioè distruggendo i modi di vita preindustriale che, secondo Riesel, “permettevano di seguire altri cammini rispetto a quelli imposti dallo sviluppo industriale” – ma anche modellando, parallelamente, gli esseri umani che vivono al suo interno. Se è così, è inevitabile giungere alla conclusione che la critica di questo sistema arriva troppo tardi. Come avviene anche ora, i presagi delle “Cassandre logiche”, che avvisano che non può esserci emancipazione possibile nel quadro della società industriale, non sono mai stati molto ascoltati e, salvo quale raro caso, non sono usciti dagli ambienti “radicali”[12].
Resta il fatto che il concetto stesso di “società industriale” pone qualche problema. Jacques Ellul, uno dei riferimenti fondamentali per la critica antiprogressista, lo rifiutava trovandolo “impreciso” e “privo di significato”[13]. È ovvio che a una realtà tanto difficile da definire non si riesca ad opporre un discorso teorico interamente coerente: ne Il fantasma della teoria, lo stesso Semprun sostiene che non esiste oggi alcuna teoria critica capace di indicare dei “punti di applicazione” sui quali agire. In queste condizioni, la suggestione formulata da Riesel di “riavviare il processo storico di umanizzazione” appare un po’ astratta. Questo concetto di “umanizzazione” merita di essere precisato[14]. Quando Semprun scrive che “l’umanizzazione iniziata è restata incompiuta e le sue fragili esperienze si disfano”[15] è evidente che egli non ha più in mente l’obiettivo rivoluzionario di una società senza classi, ma qualcosa di più elementare: il ristabilimento di condizioni minimali che rendano possibile un cambiamento, che non potrà aversi senza passare preliminarmente per un’epoca traumatica, nella quale ci troviamo già adesso. Mandosio, da parte sua, riconosce che l’obiettivo della deindustrializzazione è “molto vago”[16].
Ciò che questa critica del progresso (o delle diverse concezioni di progresso) sta prospettando è una revisione di molte idee date fino ad oggi per acquisite. La filosofia della storia di Marx, ereditata a sua volta da Hegel, stabiliva una progressione della storia umana divisa in preistoria, società schiavista, società feudale, società capitalista e società comunista. Se ammettiamo che il capitalismo ha distrutto tutte le vie di accesso a questa società senza classi, lo schema non funziona più. Eppure questo schema, che l’anarchismo fondamentalmente ha sempre condiviso, era coerente: di conseguenza, se togliamo il “mattone progressista” dell’edificio della critica rivoluzionaria “classica”, marcata in modo più o meno esplicito dal famoso “materialismo storico”, trema tutta la costruzione[17]. È auspicabile? Io rispondo categoricamente: sì.
Per il momento la critica del progresso riesce a porre le domande giuste, ma non dovrà in nessun caso aspirare a una mera crescita quantitativa. Non si tratta di inaugurare la moda dell’antindustrialismo, ma di stabilire una manciata di verità che possano servire a orientarsi di fronte a quello che verrà, che rimane imprevedibile. Nella postfazione scritta nel 2004 alla sua Storia di dieci anni dell’EdN, Miguel Amorós, che era stato membro di detto collettivo, dice che “quello che è ora urgente sono le tattiche di resistenza immediata, la circolazione delle idee, la salvaguardia del dibattito pubblico, le pratiche di solidarietà effettiva, l’affermazione della volontà sovversiva, la preservazione della dignità personale, la rottura con il mondo della merce, il mantenimento di un minimo di linguaggio critico autonomo…”[18]. Ma qui si mescolano attività personali con azioni più politiche e in quanto programma risulta decisamente ambiguo.
Ai suoi inizi, l’EdN attribuiva alle lotte di resistenza contro le nocività un ruolo più importante di quello che hanno poi realmente avuto; l’esperienza ha dimostrato che le lotte di questo genere non sono quasi mai riuscite a uscire dal quadro delle rivendicazioni concrete che le aveva fatte nascere. Si può dar la colpa di questo fallimento all’epoca, ma allora era senza dubbio sbagliato riporre troppe speranze nelle possibilità di queste lotte “contro le nocività”. L’EdN, che partiva dalla critica formulata dall’Internazionale situazionista nella sua ultima fase (“i primi frutti del superamento dell’economia non solo sono maturi: hanno incominciato a marcire” e “l’inquinamento e il proletariato sono oggi i due aspetti concreti della critica dell’economia politica”[19]) vedeva senza dubbio nella lotta contro le nocività la nuova necessità storica che avrebbe retto le future lotte contro il dominio. Ad ogni modo, con la prospettiva vantaggiosa della distanza, vediamo che non è stato così: questo sistema ha fatto della devastazione la norma e ha creato un genere di umanità che aspira soltanto ad adeguarsi ad essa. Forse aveva ragione Ulrich Beck quando diceva ne La società del rischio che l’estensione generalizzata delle nocività industriali “non genera un’unità sociale visibile per se stessa e per gli altri”, né “niente che possa organizzarsi in strato, gruppo o classe sociale”[20].
Un disfattismo illuminato?
Tornando al tema centrale del presente articolo: quale futuro ha questa critica? Spesso è stata accusata di essere un “disfattismo illuminato”. Quando questa accusa è in buona fede non è del tutto priva di fondamento, nel senso che la critica antiprogressista non procede da una visione teorica unitaria e positiva della critica sociale. Nondimeno, nell’attuale disfatta di tutto ciò che lasciava aperta una possibilità di cambiamento sociale, mantenere vivo il linguaggio della critica non è cosa da poco, sebbene bisogni riconoscere che la prospettiva di essere il testimone più lucido dell’affondamento del sistema industriale non è che una magra consolazione.
Ricordiamoci che una delle tesi fondamentali degli “anti-industriali” è che la società attuale ha ridotto quasi a zero le possibilità di intervento politico[21]. Quello che prospettano è chiaramente un ripiego, o un riarmo, che non vuol dire rimanere in casa a braccia conserte, ma resistere ai canti delle sirene dell’attivismo spettacolare e dedicarsi a una riappropriazione dei saperi sottratti dal capitalismo o partecipare a delle lotte concrete quando si presentano le condizioni adeguate: penso in particolare al caso della “Prestige” quando di fronte alla marea trionfante della piattaforma “Nunca máis” non si alzò fermamente quasi nessuna voce contro tanta ingenuità; si dirà che non poteva andare in altro modo, ma non lo credo. Mi sembra piuttosto che le persone più coscienti non abbiano osato sfidare l’idea condivisa dalla maggioranza, secondo la quale bisognerebbe sollecitare una maggior efficacia nella gestione tecnica dei disastri industriali[22]. E potrei citare molti altri esempi analoghi. Tocchiamo così quel limite di cui parlavamo prima: Miguel Amorós afferma nel testo sopra citato che “nel migliore dei casi la critica rivoluzionaria c’è già arrivata, e nel peggiore, sarà lo stesso se ci arrivi o meno”[23].
È innegabile che molte pratiche che vogliono essere sovversive incorrano nel volontarismo: quali che siano le condizioni in cui si sviluppano, delegano ogni possibilità di successo o di sconfitta allo slancio attivista, con le conseguenze che sappiamo. Evidentemente, la critica antindustriale parte dalla rinuncia all’idea di rivoluzione o, per meglio dire, della possibilità di rivoluzione nel momento attuale. Credere che una rivoluzione possa aver luogo oggi, come fanno gli “altermondialisti” più allucinati, è un’idea reazionaria. Malgrado tutto, è difficile che una tale attitudine si riveli attraente per qualcuno. In un libro recente, Nel calderone del negativo, Mandosio parla dell’illusione rappresentata dall’idea secondo la quale basti che la società industriale cambi di mano perché si metta al servizio dei bisogni umani, sostenendo che il desiderio di universalizzare i privilegi materiali che questa società offre oggi solo a qualcuno è uno dei pilastri che ne garantisce la sopravvivenza. Stando così le cose, è difficile che un cambiamento sociale che implichi una rinuncia alle comodità che, lo si voglia negare o no, la devastazione dell’ambiente offre a pochi, possa apparire desiderabile a molti. E io non sto parlando qui delle masse inebetite che vanno in macchina all’Ikea a sprecare quel poco che guadagnano; chi più, chi meno, siamo tutti prigionieri della società industriale che ci veste, ci distrae e ci riempie la pancia; con dei surrogati, certo, ma avendo eliminato la possibilità di farlo in altro modo.
Sembra assai poco probabile che la critica antindustriale riesca a svegliare gli entusiasmi se non offre anche un sogno al quale aderire (è quello che fa il primitivismo, fabbricando a misura di ciascuno uno “stato di natura” che permette di sognare); ma il problema è che lo scopo di questa critica è precisamente di demolire tutte le illusioni. Il tempo dirà se la prospettiva della deindustrializzazione è solo una chimera in più o se detiene qualche possibilità di realizzarsi.
[1] Unabomber è il nome dato dalla stampa statunitense all’autore di diversi attentati compiuti tra il 1978 e il 1995 contro importanti rappresentanti della società tecnologica.
[2] Il manifesto di Unabomber. La società industriale e il suo futuro, Roma, Stampa alternativa, 1997.
[3] Jean-Marc Mandosio Après l’effondrement. Notes sur l’utopie néotechnologique, Parigi, EdN, 2000, p. 204.
[4] Jaime Semprun, Le fantôme de la théorie, in «Nouvelles de nulle part», n. 4, set. 2003, poi in appendice a Réné Riesel e J. Semprun, Catastrophisme, administration du désastre et soumission durable, Parigi, EdN, 2008. Trad. it.: <https://enoizapicname.files.wordpress.com/2013/04/il-fantasma-della-teoria.pdf>.
[5] Non possiamo fare a meno di notare, di passaggio, il fatto incontestabile che la critica ecologista non è nata negli ambienti anarchici o marxisti, gli uni e gli altri così impregnati, nella loro maggior parte, dal mito del progresso, ma negli ambienti che essendo politicamente più timorati erano però più sobri nella loro visione del mondo, come ad esempio il bioregionalismo e altre correnti ecologiste degli anni Cinquanta e Sessanta. È d’altra parte chiaro che stiamo generalizzando: storicamente ci sono stati sia marxisti che anarchici che non si sono arresi alle promesse del progresso
[6] Karl Marx, Friedrich Engels, L’ideologia tedesca, Libro 1, III, Nuovo Testamento: ‘Io’, 6 (Il cantico dei cantici o l’Unico).
[7] Per Rete Echelon si intende un sistema interstatale di sorveglianza e intercettazione di comunicazioni pubbliche e private.
[8] Gruppo anti-industrialista spagnolo, editore dell’omonima rivista «Los Amigos de Ludd. Boletín de información anti-industrial», uscita in 7 numeri tra 2001 e 2004.
[9] R. Riesel, Del progresso nella domesticazione, in Id., Sulla zattera della medusa, Torino, 415, p. 223.
[10] J. Semprun, Notes sur le Manifeste contre le travail du groupe Krisis in «Nouvelles de nulle part», n. 4, set. 2003, poi in appendice a R. Riesel, J. Semprun, Catastrophisme, administration du désastre et soumission durable, cit.
[11] R. Riesel, Del progresso nella domesticazione, cit., p. 215.
[12] Cf. Jean-Marc Mandosio, Nel calderone del negativo, Torino, 415, 2005, p. 114.
[13] Kaczynski disse di aver trovato assolutamente entusiasmante il libro di Jacques Ellul, La tecnica: rischio del secolo (1954), che lesse agli inizi degli anni Settanta.
[14] La prima parte de Il mito della macchina di Lewis Mumford contiene il miglior tentativo di definizione del concetto di “umanizzazione”.
[15] J. Semprun, L’abisso si ripopola, Milano, Colibri, 1999, p. 76.
[16] J.-M. Mandosio, Nel calderone del negativo, cit., p. 116.
[17] A meno che non si voglia vedere nella catastrofe attuale la realizzazione di un’idea enigmatica del Manifesto su cui Marx ed Engels non sono più ritornati, cioè che la lotta di classe si possa concludere “o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta”, questa volta in senso letterale (K. Marx, F. Engels, Manifesto del Partito comunista, I Borghesi e proletari). L’EdN difatti, seguendo Hannah Arendt, parla della dissoluzione delle classi sociali nelle masse…
[18] Miguel Amorós, Postfacio, in Historia de diez anos: esbozo para un cuadro histôrico de los progresos de la alienaciôn social, Madrid, Klinamen, 2005, p. 81 (Histoire de dix ans è originariamente pubblicata in «Encyclopédie des nuisances», n. 2, feb. 1985).
[19] Tesi sull’Internazionale situazionista e il suo tempo, in Internazionale situazionista: la vera scissione, Roma, Manifestolibri, 1999, par. 8 e 17.
[20] Ulrich Beck, La società del rischio: verso una seconda modernità, Roma, Carocci, 2000.
[21] “La formidabile organizzazione tecnica dell’attuale società nega che possa prodursi una messa in moto rivoluzionaria”, si legge in La fine di un’epoca («Los Amigos de Ludd», n. 7, giu. 2004); questo testo fa eco all’articolo intitolato L’inizio di un’epoca, con il quale si apriva l’ultimo numero della rivista «Internazionale situazionista» (n. 12, 1969) pubblicato dopo gli eventi del maggio 1968.
[22] Cfr. Los Amigos de Ludd y Los Enemigos del mundo industrial, Disastro della Prestige o disastro della coscienza; Prestige: i segreti dell’adattamento moderno, Bologna, Acrati, 2004 (entrambi i testi, uniti a una autointervista a Los Amigos de Ludd, anche in A proposito del naufragio della petroliera “Prestige”, Bologna, La mala erba, 2003).
[23] M. Amorós, Postfacio, in Historia de diez anos, cit., p. 81.