Da Rivista Malamente n. 30, set. 2023 (QUI IL PDF)
Intervista di Sergio Sinigaglia a Takoua Ben Mohamed
Arrivare bambina in un nuovo Paese, calarsi in una realtà sconosciuta, in un contesto dove spesso trovano spazio diffidenza, pregiudizi, intolleranza e anche razzismo, dove ti senti addosso gli sguardi che osservano con freddezza. Takoua Ben Mohamed (Tunisia, 1991) è giunta in Italia con la famiglia all’età di otto anni. Dopo aver vissuto per poco tempo in una piccola località alle porte di Roma, si è trasferita nella capitale, affrontando l’impatto della grande città. Ha preso presto coscienza della propria situazione maturando in fretta e iniziando il suo impegno sociale, culturale e politico. Grazie al suo talento da fumettista e illustratrice ha pubblicato graphic novel di successo, dove tratta temi come la condizione delle donne musulmane e dei rifugiati, il razzismo, la xenofobia. Tra i suoi libri: “Sotto il velo” (BeccoGiallo, 2016), “La Rivoluzione dei Gelsomini” (BeccoGiallo, 2018), “Il mio migliore amico è fascista” (Rizzoli, 2021). A fine maggio è stata a Senigallia, su invito dell’Associazione Le Rondini, dove ha prima fatto visita ad alcune scuole superiori e ha poi partecipato a un dibattito organizzato presso il Centro sociale Arvultura (alla presenza, tra gli altri, di studenti e studentesse della scuola di italiano per stranieri Penny Wirton). L’abbiamo intervista in questa occasione.
Sei arrivata in Italia che eri una bambina, che impatto hai avuto con il nuovo contesto?
Era il 1999, quindi un’altra Italia. Inoltre la mia prima residenza è stata in un piccolo paese vicino a Roma dove si conoscevano tutti quanti, dunque un ambiente piuttosto familiare, tenendo presente che un bambino ha una capacità di ambientamento più facile rispetto a un adulto, il quale ha già una sua identità, una sua cultura. Per me è stato un cambiamento abbastanza normale.
I problemi sono iniziati quando nel 2001 ci siamo trasferiti a Roma, il primo anno all’Eur poi nella zona Est, per cui sono passata da un ambiente dove tutti si aiutavano, dove le relazioni erano facili anche se eravamo l’unica famiglia di immigrati, a una situazione completamente diversa dove uscivi la mattina e tornavi la sera senza avere tempo neanche di conoscere i vicini di casa.
Dopo l’attentato dell’11 settembre la diffidenza è aumentata, si sono verificati episodi di islamofobia, tutto è cambiato. Ero una bambina che frequentava la quarta elementare e non riuscivo a spiegarmi le ragioni di quegli atteggiamenti, il motivo per cui alla recita scolastica di fine anno dovevo essere scelta io per dire alcune parole sulla pace. Sono state esperienze di vita che mi hanno fatto maturare in fretta. C’è anche da tenere presente che sono cresciuta in un ambito familiare in cui sia i genitori che gli zii erano impegnati politicamente e in Tunisia non hanno avuto vita facile con la dittatura dell’epoca. Sesta di sette figli ho sviluppato una coscienza che i miei coetanei non avevano, sono stata costretta a crescere il più in fretta possibile.
Il primo vero episodio di discriminazione si è verificato quando facevo la quinta elementare: stavo giocando da sola in bicicletta e ho preso di striscio una bambina che abitava nel mio palazzo. Le ho chiesto subito scusa e mi sono sincerata che non le avessi fatto nulla, ma il padre mi ha apostrofato gridandomi: «zingara di merda». Dopo questo episodio ho capito che dovevo compiere la scelta già fatta dai miei genitori. Ho iniziato a impegnarmi nel volontariato romano che mi ha formato ed è sempre collegato al mondo politico. Conoscendo determinate storie ho capito perché quell’uomo mi aveva insultato un quel modo.
Come è nata l’idea di usare la graphic novel, il disegno come strumento di denuncia e impegno?
È conseguenza dell’attività nel volontariato seppure la passione per il disegno l’avevo sempre avuta sin dai tempi della Tunisia. È stato il mio primo mezzo di comunicazione in Italia. Quando tornavo a casa dopo il volontariato – ero in prima media – disegnavo le storie che avevo ascoltato e le proponevo in occasione degli eventi a cui partecipavamo come associazione. A 14 anni ho avuto la mia prima pubblicazione in un libro universitario e da quel momento ho iniziato a farmi conoscere anche tramite i social network.
Tra le tematiche a te care ci sono quelle della differenza, del rispetto. Che rapporto hai con il femminismo dato che vieni dal mondo arabo dove pur essendoci state in questi anni molte manifestazioni da parte delle donne, comunque esiste un contesto difficile rispetto all’affermazione dei diritti?
Sono cresciuta con una madre molto forte, militante nei movimenti studenteschi universitari e c’è da tenere presente che la Tunisia ha una storia particolare rispetto agli altri paesi del Nord Africa e del Medio Oriente. I miei genitori, molto religiosi, mi hanno educato spiegandomi che non c’è differenza tra maschio e femmina. Dunque ho appreso questo tipo di pensiero anche se non riuscivo a dargli un nome.
Oggi femminismo cosa significa? Può dire tante cose perché al suo interno ci sono visioni diverse e spesso non vanno d’accordo tra loro. In ogni caso il mio primo impatto con il termine l’ho avuto nel peggiore modo possibile a scuola, alle superiori, con una professoressa che si definiva femminista e aveva una visione molto ristretta del concetto e piuttosto eurocentrica, che non accettava altri punti di vista, altri tipi di libertà. Per lei il femminismo era un’unica cosa e quindi dovevo togliermi il velo e cose simili. Io non riuscivo ad accettare questa interpretazione del femminismo, anche perché crescendo ed entrando in contatto con altre donne, italiane e non, verificavo altri femminismi. Queste relazioni hanno favorito lo sviluppo di un mio pensiero personale su queste tematiche. Ritengo che sia importante approcciarsi a tali problemi sin da bambina visto che con la questione di genere ci impatti assai presto. Dunque l’inizio della conoscenza del pensiero femminista non è stata felice, ma non ho mollato e successivamente sono riuscita ad apprezzare la questione con un mio punto di vista.
E qual è ora la tua visione del femminismo?
Quello che penso attualmente magari non sarà ciò che penso domani. Ti rispondo con un esempio: l’estate scorsa sono stata nel Kurdistan iracheno dove ho incontrato varie femministe, da quella islamica, all’atea, alla yazidi, alla curda, provenienti da Nord e Sud, con differenze sociali e generazionali. È stato molto bello e soprattutto stimolante farsi contaminare da visioni molto diverse, ma quando torno in Italia e sento dei reporter di guerra raccontare dei femminismi delle altre, noto che lo fanno sempre con il filtro eurocentrico. Io ho faticato per abbattere questo modo di ragionare, non solo eurocentrico ma anche occidentale-centrico, che per me è molto pericoloso.
Mi fa capire quanto il colonialismo sia radicato nello stesso femminismo. Quando vado nei paesi che hanno vissuto l’occupazione coloniale, per studiare la loro storia dal loro punto di vista – le stesse cose che ho studiato io in Italia – verifico che il mondo è molto diverso da quello che ci immaginiamo, c’è molto da imparare. Per carità io sono molto fiera di essere italiana, perché vivere qui mi ha dato molto, come del resto la Tunisia, così come viaggiare nei vari continenti mi ha molto arricchito. In questo modo cerco di ampliare il più possibile la mia visione non solo sul femminismo, ma sui diritti umani nel senso ampio del termine. Quando cresci nel volontariato credi che tutti siamo uguali, ma poi scopri che è una grande menzogna, basta vedere i diversi passaporti e il valore diverso che assumono a seconda dove sei nato o nata.
Nel tuo caso il velo è una scelta libera, ma in molti altri, per rimanere nell’ambito italiano, non è così, spesso è una imposizione familiare o della comunità di riferimento…
Io non penso che il velo debba essere collegato a un fattore culturale. Il Paese d’origine e la cultura sono due cose diverse rispetto alla religione, anche perché in Tunisia per molti anni il velo è stato vietato, così come in Turchia (cosa poco conosciuta), mentre si parla sempre dei Paesi dove c’è l’obbligo. Io credo che ogni nazione abbia la sua storia, la sua macrostoria e la sua microstoria, la sua identità, la sua cultura, le sue tradizioni. Per me il velo è una questione molto personale e religiosa, poi c’è il problema dei diritti che invece è una tematica sociale. Io ho sempre rivendicato il mio diritto di portarlo perché ritengo che alla base del femminismo ci sia la libertà di scelta. Portarlo o non portarlo, così come la scelta di votare o non votare, portare la minigonna o no è una tua scelta, anche questo è femminismo. Ogni volta che esci di casa fai la scelta di portare il velo perché sai che ti scontrerai con una società che non lo guarderà mai bene, che avrà sempre qualcosa da ridire, positiva o negativa che sia, consapevole che avrai gli sguardi addosso. Ci sono ragazze che lo hanno dovuto togliere al lavoro o viceversa lo hanno dovuto mettere costrette dalla famiglia, ci sono tante situazioni diverse.
Per quanto mi riguarda, sin da bambina, quando devo prendere una decisione mi chiudo in me stessa per capire se è una scelta mia o mi è stata imposta. Ci sono momenti in cui penso di togliermi il velo perché sono stanca e non ce la faccio più, perché è un peso – chi dice il contrario mente – quindi rifletto, ma poi esco di casa e dico: cosa mi importa dei giudizi altrui?
Tutto questo mi ha temprato, i tanti episodi che ho vissuto con o senza velo (non l’ho portato sempre), hanno contribuito alla mia crescita, oggi non sarei la persona che sono. Quando cercavo lavoro di qualunque tipo, anche lavapiatti, ho ricevuto tanti rifiuti. Quando vedono la foto del curriculum ti scartano sempre, o se ti chiamano ma poi ti presenti con il velo ricevi l’ennesimo rifiuto. Penso che ogni donna deve essere se stessa, velo o non velo. Ripensando a quei “no” ritengo siano stati una fortuna perché altrimenti oggi non avrei potuto intraprendere il giornalismo grafico.
In questi ultimi tempi si è parlato molto di Tunisia, il Paese che ha dato il via alle cosiddette primavere arabe. Come è oggi la situazione?
Sono tornata pochi giorni fa e ho verificato che è abbastanza preoccupante. C’è un ritorno alla dittatura. La polizia di Ben Ali non è mai andata via, è un sistema di controllo che difficilmente si cambia nel giro di una dozzina di anni. Capisco i tanti giovani, anche coloro che vivono una condizione agiata, che vogliono andare via perché vivere sotto una dittatura è difficile. Se hai a che fare con la polizia è estremamente pesante, come del resto è sempre accaduto.
Il tuo ultimo libro ha un titolo piuttosto provocatorio, “Il mio migliore amico è fascista”, ci spieghi meglio di cosa tratta?
In realtà è una storia vera, direi di umanità. Viviamo in tempi molto complessi, in cui è facile categorizzare le persone. In prima superiore c’era questo mio compagno di banco, fascista dichiarato, che mi era stato assegnato. Tutti gli altri posti erano liberi mentre solo noi due dovemmo sottostare all’obbligo, quindi costretti a dividere il banco. Naturalmente diventammo subito perfetti nemici. L’odio non era solo da parte sua, perché il sentimento era corrisposto anche da me. Prendemmo il pennarello indelebile e tracciamo una linea di separazione. Praticamente un muro. Lui dalla sua parte aveva disegnato una enorme svastica. Però trovammo un modo di andare d’accordo perché pensavamo che quello fosse il metodo giusto per convivere.
Poi con il passare del tempo abbiamo capito come fosse stato facile costruire quel muro, ma nello stesso tempo fosse estremamente difficile abbatterlo. Ci siamo messi in discussione, seppur con tante tensioni e insulti, io gli davo del fascista, lui della terrorista talebana, però alla fine siamo diventati amici… e l’ho anche fatto diventare antifascista. In realtà lui diceva di essere fascista, ma in definitiva non sapeva neanche cosa volesse dire. Abbiamo fatto emergere il nostro lato umano e questa storia mi è stata molto utile perché ho imparato il dibattito, il confronto grazie a lui.
Oggi purtroppo nelle scuole questo non si insegna, non c’è un confronto tra alunni e insegnanti, non si mettono sul tavolo opinioni diverse. Lui aveva una visione opposta alla mia, ma abbiamo imparato ad ascoltarci veramente, a esprimere le nostre opinioni senza paura, anche attraverso momenti di tensione. Abbiamo trovato dei punti in comune e lavorato su quello.