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Banditi della Marca del Sud

Intervista di Luigi a Raoul Dalmasso

L’intervista a Raoul Dalmasso – autore di Storia dei Quaranta, ovvero La verissima storia de li quaranta banditi di Amandola che se ne andarono a menar guerra al Turco, Edizioni Malamente, 2024) – è uscita su Rivista Malamente #34, ott. 2024. Raoul ci accompagna in un lungo viaggio tra potere e contropotere nelle Marche del Cinquecento, sulla scia dei banditi protagonisti della “Storia dei Quaranta”. Il libro è disponibile sul nostro sito e in tutte le librerie.

Con la tua “Storia dei Quaranta” ci proponi un romanzo storico ambientato nel XVI secolo. È la storia di una compagnia di banditi di Amandola (piccolo paese sui Monti Sibillini, nelle Marche) che attraverso molteplici vicissitudini si ritrova a combattere contro i turchi a Famagosta. Ci sono una trama e un’ambientazione complesse, tradotte in una narrazione “pop” e accattivante, un sottofondo di humor ma anche etico e politico e altre caratteristiche che potrebbero farci classificare il tuo libro nel cosiddetto genere New italian epic (se ancora esiste…). Senti calzante questa etichetta?

Sì. Direi che se si volesse proprio classificare S40 sotto un genere letterario questo sarebbe il NIE. Wu ming 1, proponente della definizione, definisce il New Italian Epic come una “nebulosa” di opere aventi alcuni elementi in comune ma altrimenti diversissime fra loro. Una definizione piuttosto ampia che può accogliere tranquillamente il mio scritto. A mio avviso è principalmente una caratterista del mio libro a renderlo parte della nebulosa, ed è la sua natura ibrida. Storia dei Quaranta, infatti, ha diversi livelli di lettura. Sicuramente è un romanzo storico (“cappa e archibugio”, se vogliamo), e lo stile narrativo è volutamente pop. I fatti narrati sono truci e sanguinosi, il tono è hardcore. Ma non bisogna farsi trarre in inganno dalla forma: non si tratta di un’opera di fantasia. O meglio: lo è, ma solo in minima parte. Per questo motivo S40 può essere letto indifferentemente come un romanzo d’avventura o come una trattazione storica di eventi che ebbero luogo nel decennio 1565-1575 nella Marca Anconitana dello Stato Pontificio e più in generale nel Mediterraneo. Dipende da chi legge.

Un altro aspetto interessante del tuo libro è lo stile, la sperimentazione linguistica. La voce narrante del libro parla un misto di italiano moderno e italiano del Cinquecento, con inflessioni dialettali. Si vede che dietro c’è sia un retaggio dialettale che evidentemente conosci di persona, sia una ricerca appositamente condotta sul linguaggio e sul vocabolario. Il tutto, e questa è la cosa a mio avviso sorprendente, senza mai appesantire la lettura che rimane godibile non solo per un marchigiano, ma per qualunque lettore. Ci dici da dove viene questo linguaggio e quali fonti hai utilizzato?

Sono nato e cresciuto nel sud delle Marche e parlo il dialetto locale come seconda lingua da quando ne ho memoria. Come quasi tutti da queste parti. E poi i dialetti mi sono sempre piaciuti: hanno la capacità di far esprimere concetti non formulabili in italiano. O almeno non con le stesse sfumature o con la stessa immediatezza. Sono linguaggi evocativi di storie e culture diverse da quelle ufficiali (o meglio, dominanti). Hanno un sapore loro.

Poi, anni fa, mi sono imbattuto casualmente in un libro del millecinquecento scritto in volgare da un militare del centro Italia e mi è scattata la scintilla. Quissi parlava come nuatri, questi parlavano come noi. In altre parole mi sono accorto di quanto il dialetto di oggi sia più vicino al volgare cinquecentesco di quanto non lo siano l’italiano di allora e quello moderno. Come se le due lingue fossero andate a velocità diverse, nei secoli. Seguendo più le storie e i personaggi storici che la lingua, sono andato avanti con le ricerche. Con mio grande divertimento, nei libri di storia locale e nei documenti dell’epoca ho continuato a trovare qua e là espressioni in volgare centro-italiano. Ben presto questo linguaggio mi ha contaminato. Ho cominciato a usarlo per farci quattro risate a casa con i miei e lo humor mi ha aiutato a imparare. A causa delle mie letture ho anche un gatto che si chiama come un bandito amandolese della Banda dei Quaranta: Faldino lu Rusciu (che saluto). Insomma, devo dire che mi è venuto tutto piuttosto naturale.

Quando ho iniziato a scrivere ho deciso che il potere evocativo delle parole che furono sarebbe stato mio alleato. Per questo in Storia dei Quaranta uso frequentemente parole o modi dire in una lingua che è una mia libera interpretazione della lingua che avrebbe potuto parlare un mio conterraneo dell’epoca.

Veniamo alla storia narrata nel tuo libro, che è una storia dal basso, una controstoria se vogliamo, che utilizza personaggi e trama di fantasia ma all’interno di un contesto che è rigorosamente attendibile e verificabile. Ci puoi, appunto, raccontare un po’ di questo contesto, in particolare le Marche (o, meglio, la Marca) del Cinquecento, i suoi assetti politici e di potere?

Prima di rispondere alla tua domanda ci tengo a fare una precisazione. Come dicevo prima, la trama del mio libro non si può definire propriamente di fantasia. In S40, nelle mie intenzioni, la Storia non è una scenografia ben costruita o un’ambientazione realistica. Non è il contesto: è la protagonista. Eventi, date e gran parte dei protagonisti delle vicende narrate sono rintracciabili in documenti di archivio dell’epoca, nonché nei libri di storia degli ultimi quattro secoli. L’ampia bibliografia allegata è pensata proprio per i curiosi o per gli scettici che volessero trovare prove o smentite a quanto racconto. Leggere per credere. Poi, come dici tu, è vero che S40 è una storia dal basso o una controstoria, ma bisogna stare attenti a non confondere l’interpretazione dei fatti storici con la fantasia. Detto ciò proverò a descrivere quel gran guazzabuglio che erano le Marche all’epoca in questione.

Nella seconda metà del millecinquecento quasi tutta l’odierna regione delle Marche fa parte della Marca Anconitana, una delle regioni dello Stato della Chiesa. Il Ducato di Urbino mantiene ancora una propria autonomia formale, pur essendo Stato vassallo, mentre Camerino e Ancona sono state annesse allo Stato pontificio solo da pochi decenni. Quasi tutte le altre città della Marca sono sotto il controllo diretto o indiretto della Santa Sede, ovvero sotto il Papa. Il Pontefice non è solo un vecchio in vestaglia e cappellino che se la prende con i cagnolini, ma è colui che tramite i suoi Legati o Governatori generali esercita il potere temporale su queste terre.

Non dobbiamo però pensare che il potere statale sia totalizzante e pervasivo come lo è il potere di un moderno Stato nazionale (in qualunque forma esso si presenti). Ne abbiamo fatta di strada e di ginnastica d’obbedienza per arrivare dove siamo ora. La capacità materiale di controllo dello Stato centrale, in questo periodo storico, è ancora minima. Le Terre e le Città marchigiane sono entità politiche ben distinte e spesso in contrasto una con l’altra. Si autogovernano, hanno statuti comunali e leggi consuetudinarie locali, nonché parte del potere giudiziario. Perfino le unità di misura sono diverse da un luogo all’altro. Alcune Città sono ancora rette da Signorie, altre sono governate da consigli comunali, mentre altre ancora sono controllate direttamente dai religiosi. E tutto ciò con varie eccezioni e particolarità: è un panorama del potere fluido ed estremamente eterogeneo. È chiaro che, nel caso delle Marche, la ripetutissima progressione positivista “dal feudo al comune alla signoria allo stato centrale” non è più nemmeno un’utile semplificazione.

In queste terre, soprattutto in questo periodo, le dinamiche di potere sono stratificate e sovrapposte, coesistenti e concorrenti. Historia non facit saltus. I vecchi e i nuovi poteri sono tutti lì allo stesso tempo e litigano continuamente, pur mangiando allo stesso tavolo di questa oscena società del privilegio. Non c’è niente di lineare. L’unica cosa che accomuna tutte le Terre e le Città della Marca è che queste sono formalmente sottomesse al Papa: sottostanno alla giustizia pontificia, pagano le tasse (piangendo) e su richiesta mandano uomini e vettovaglie per gli eserciti del Papa (piangendo più forte). Poi ogni Terra grande o piccola fa caso a sé, ed è legata allo Stato pontificio da patti specifici e consuetudini particolari. Non è un caso che le Marche siano ancora oggi una regione al plurale.

Restringendo lo sguardo sui poteri locali, poi, la situazione si complica ulteriormente. È come se fosse un frattale: in piccolo la gestione del potere nelle singole località è frammentata, combattuta e fluida come lo è quella dello Stato centrale. Prendiamo come esempio il caso di Amandola (FM), il paese sui Monti Sibillini nel quale si sono svolte alcune delle vicende narrate in Storia dei Quaranta. La Terra di Amandola nel XVI secolo conta circa quattromila abitanti, più di quanti ne faccia oggi. Non sono pochi, se si pensa che in questo periodo Macerata, la Capitale della Marca, ne fa ottomila e l’intera Italia è popolata da meno di tredici milioni di persone. Amandola è dunque una Città di medie dimensioni, con un ampio contado, pascoli montani, selve di querce e numerosissime ville (le moderne frazioni). Nessuno stato forestiero vanta diritti feudali sulle sue terre e, nonostante i tentativi, non è mai stata sottomessa dai suoi vicini più ingombranti: lo Stato di Ascoli e lo Stato di Fermo. Per questo è una Terra immediata, ovvero il suo Consiglio comunale risponde direttamente solo allo Stato della Chiesa e ai suoi inviati.

Il Podestà, massima autorità locale, e varie altre cariche pubbliche annuali (o meno) sono di nomina pontificia, mentre il Consiglio comunale è tenuto in pugno dai nobili locali, i quali hanno un incarico vitalizio e spesso ereditario. Possiamo dire che la gestione del potere è riservata ai nobili, anche se diretti e supervisionati dagli inviati del Papa. In un anno normale il Podestà, il Vicario, il Socio milite, i Notari e altri vengono scelti dal Consiglio in una lista approvata dalle autorità pontificie. Questi funzionari papali si insediano nel palazzo del Podestà e, insieme a li Priori scelti fra i Quaranta del Consiglio cittadino, governano il popolo basso in pace e concordia. I Nobili, i quali hanno “graziosamente rinunciato” a molti dei loro privilegi feudali sottomettendosi al Papa, vengono ricompensati con il diritto esclusivo al governo cittadino. Lo Stato Pontificio è un’aristocrazia arrotolata in una teocrazia, se vogliamo.

Questa è la teoria del governo. Nella realtà dei fatti dubito che un anno normale sia mai esistito. Anzi: sappiamo per certo che nella Terra di Amandola, in questo periodo storico, di pace e di concordia non se ne vedono affatto. Dopo la metà del millecinquecento il Comune viene commissariato dal Papa almeno dieci volte in meno di vent’anni. Le milizie papaline, con la buona stagione, occupano militarmente la città e battono le campagne a caccia di criminali comuni ma anche di fuoriusciti politici. Le cronache dell’epoca e i libri di storia locale abbondano di narrazioni di “dissidi cittadini”, “odj interni”, “scontri fra fazioni”, “guerre di famiglia”, “discordie” e “vendette”. Ci sono nobili cittadini amandolesi in esilio a Macerata per timore di essere assassinati dai propri avversari e nobili cittadini amandolesi banditi a causa degli assassinii da loro commessi a danno dei propri avversari. In Amandola avvengono ripetutamente tumulti, occupazioni militari, agguati, omicidi e attentati alla vita dei funzionari del Papa. È una storia feroce e cruenta sulla quale non posso però dilungarmi in questa sede: Li fatti de Amandola sono accuratamente narrati nel primo capitolo di Storia dei Quaranta.

La situazione di estremo disordine politico sopra descritta, comune in tutta la Marca, nasce anche a causa dei conflitti fra i patrizi locali e il governo del Papa. Sono i vecchi e i nuovi poteri che entrano continuamente in contrasto. Perché è sicuramente vero che moltissimi appartenenti al ceto nobiliare vengono cooptati nelle strutture pontificie (alto clero, notai, giudici e comandanti militari sono spessissimo di buon sangue) ed è altrettanto vero che la gestione del potere periferico (compresa l’esazione dei tributi) viene lasciata nelle mani delle migliori famiglie locali per compensarle dei privilegi perduti. Ma il controllo papale è sempre stato mal sopportato e la perdita di potere non viene accettata pacificamente dai nobili. Per di più, a partire dalla metà del secolo, la pressione fiscale aumenta e le politiche antinobiliari dei Papi si inaspriscono. Gli ultimi feudi della Marca vengono mano a mano incamerati dalla Camera Apostolica e gli antichi privilegi feudali vengono cancellati o avocati a sé dalla Chiesa: è in atto una politica accentratrice dello Stato Pontificio a danno della nobiltà.

Torniamo al nostro esempio amandolese. Molti nobili di queste parti dell’Appennino discendono dalle vecchie famiglie feudatarie, le piccole Signorie terriere parzialmente addomesticate al tempo dei Comuni. Questi nobili ancora considerano se stessi li Dinasti, ovvero i discendenti di coloro che eressero le prime castella e che dominarono questi luoghi prima ancora del tempo dei Comuni, quando le querce andavano dall’Adriatico ai Monti Sibillini in un’unica ininterrotta foresta primordiale. La memoria delle famiglie è lunga. Si ricordano che le colline e le montagne, li ruscelli e li molini erano loro. Anche le pecore, i maiali, i contadini e tutto quello che camminava sulle terre di famiglia era il loro. Amministravano la giustizia e imponevano tributi. Erano Signori, nostalgia canaglia. Invece adesso devono ubbidire al Papa e magari cominciare a pagargli le tasse. Addirittura rischiano di dover sottostare alla giustizia papale anche per reati comuni, eventualità dalla quale erano finora stati assolutamente immuni. I nobili della Marca del cinquecento stanno perdendo sempre più potere, ricordano che i propri avoli erano Signori che sempre avevano difeso i privilegi di famiglia con la spada in pugno, e alcuni dei loro discendenti non hanno intenzione di essere da meno. Si capisce che in una simile situazione i presupposti per un conflitto politico sono sempre nell’aria.

Sveliamo subito come finiscono le politiche antisignorili del Papa, affinché chi ci legge non stia troppo in pena per le sorti del ceto aristocratico marchigiano: la nobiltà imparerà a stare a tavola. L’aristocrazia terriera, atavico parassita immortale del popolo dei campi, resisterà tenacemente aggrappata ai propri privilegi, a vivere con quotidiana inclemenza delle fatiche altrui. Non di meno, nella seconda metà del millecinquecento ci sono svariati casi di ribellioni nobiliari. Nella Marca del sud, trenta anni dopo le vicende narrate nel mio libro, la famiglia Manardi si rende protagonista per l’ennesima volta di una di queste rivolte. Morgante di Giovannantonio de li Manardi de Amandola (che incontriamo giovanissimo nel primo capitolo di Storia dei Quaranta), alleato con altri tenta la cosa nova, la rivoluzione contro il Papa. L’impresa, come noto, non va a buon fine.[1] Morgante Manardi, con orrore di tutta la meglio nobiltà marchigiana, finisce sul patibolo: nell’autunno del 1597 viene accoppato, scannato e squartato nella pubblica piazza a Macerata. La testa viene portata in Amandola e murata nella torre del Podestà. Qui viene posta una targa che possiamo vedere ancora oggi e che recita: MORGANTE MANARDO BANDITO IMPOSITORE DI TAGLIE VSVRARIO TIRANNO ET REBELLE DI SANTA CHIESA. Ma questo è un caso piuttosto raro. Sono pochi i nobili che giungono allo scontro armato diretto col Papa e molti meno quelli che poi ne pagano le conseguenze. Spesso si concilia, si tratta, si perdona. Nei conflitti fra le aristocrazie terriere e lo Stato centrale tutti i partecipanti hanno troppo da perdere. Non è vero, come si sostiene talvolta, che le politiche papali dell’epoca hanno inferto un colpo mortale all’aristocrazia marchigiana. La verità è che l’ambigua, avida e crudele nobiltà pontificia sopravviverà per secoli. Fino a oggi.

Un ultimo elemento è essenziale per comprendere le dinamiche di potere in questo scorcio di secolo, ed è la diffusissima, onnipresente e dilagante violenza. Nella seconda metà del cinquecento le Guerre d’Italia sono appena finite, le compagnie militari sono state sciolte e l’Italia pullula di veterani e soldati sbandati. Come dopo ogni guerra ci sono troppe armi e troppe persone abituate a usarle. La vita vale poco. Ma non sono solo i soldati e i reduci a essere assuefatti al sangue, non sono gli unici a essere protagonisti e testimoni di fatti cruenti. La cultura della violenza è diffusa fra tutti gli strati della popolazione.

Una caratteristica della società di tutto lo Stato di Santa Chiesa, infatti, è la sua grandissima aggressività interna. In ogni città interi gruppi familiari e i loro affiliati si contrappongono ferocemente in faide e lotte fra opposte fazioni politiche che possono andare avanti per decenni se non secoli. Vendetta per vendetta per vendetta. Nel corso di queste guerre di famiglia si susseguono risse, imboscate e omicidi. Si tagliano le viti nelle vigne dell’adversarii, si sgarrettano tutte le pecore dei loro pascoli, si dà il guasto alle case dei nemici e li si fanno le mine nelli muri per diruparle. Non è sbagliato affermare che la vendetta per gli italiani dell’epoca sia un fatto sociale totale, un imperativo culturale, un codice d’onore.

Anche le istituzioni statali del Santo Padre non sono da meno in quanto a vendicatività ed efferatezza. Per farsi un’idea della giustitia del Papa basta sfogliare i Bandi Generali della Marca, i codici penali dell’epoca. Le pene corporali previste, tutte da infliggersi nella pubblica piazza a beneficio di grandi e piccini, sono di una violenza spettacolare. Alcuni esempi di magnifiche vendette de lu Papa saranno di aiuto. I papi dell’epoca si pongono il problema del gender e lo risolvono così: “Tali scelerati ch’haveranno ardire così sporcamente imbrattarsi in così fatto, & abhominevole peccato […] Incorra[no] la pena della morte naturale da darseli con il fuoco.”. Per i bestemmiatori recidivi: “pena di scudi cento, & di essere messo alla berlina, & di essergli inchiodata pubblicamente la lingua, & all’esilio dalla Città etc”. Spergiuro: “Incorra in pena d’esserle tagliata la mano destra, o sinistra, s’in quella sarà più potente […] eccettuando i contadini, a’ quali in cambio della mano si tagliarà la lingua.”. Il macabro campionario continua con tratti di corda per tutti, frustate, tanagliate, amputazioni, impiccagioni e pene corporali ad arbitrio dell’autorità (per lasciar spazio alla fantasia).

Credo che a questo punto il quadro sia chiaro: nel Cinquecento italiano sangue e brutalità fanno parte della quotidianità di molti. In questa società la violenza è vista come un mezzo legittimo per raggiungere i propri fini. Non deve dunque stupire che anche la lotta per il potere in una piccola città come Amandola si conduca con la forza delle armi, con le storte e l’archibusi. La politica è violenza.

Invece per quanto riguarda i “senza potere”, il popolo di città e campagne, vediamo che qualcuno ogni tanto alza la testa: ribelli, rivoltosi, banditi, certamente estranei a un orizzonte “rivoluzionario” come lo possiamo concepire oggi. Cosa ci puoi dire di questo mondo?

Lo Stato della Chiesa a metà millecinquecento è popolato da gente di famigerata bellicosità e turbolenza. Tutti i segmenti della società sono in stato di insubordinazione permanente. Il conflitto sociale è una brace ardente sempre pronta alla fiamma. Divampano rivolte antisignorili supportate dalla Chiesa e insurrezioni a guida nobiliare contro il Papa. Scoppiano sommosse armate nei monasteri, tumulti popolari e infiniti altri torbidi. I senza potere, che sono la stragrande maggioranza della popolazione, partecipano a tutti questi conflitti e finiscono in ogni schieramento. Sono la carne da macello e i macellai. Sono i banditi, i bravacci del Barone, gli sgherri dell’Abate, le milizie papaline. È un fatto noto che gli eserciti pontifici, rinomati per violenza e indisciplina, siano pieni di ex banditi. Altro che Pasolini. Per i nobili, invece, si può intravedere vagamente una sorta di primitiva “coscienza di classe”, nel senso di “difesa dei privilegi comuni del proprio ceto”. Poca cosa, certo, ma comunque molto più di quanto non si possa dire per il popolo magro. Per la gente comune il senso di appartenenza è per il gruppo familiare, la villa, il paese. Non per la classe sociale. I poveri combattono contro i propri nemici come possono e si ribellano ai propri oppressori con alleanze sempre mutevoli. Sono dalla parte del Signore contro la Chiesa sempre più avida ed esattrice oppure dalla parte di Santa Chiesa contro il Dinasta, antichissimo tiranno e atavico oppressore dei villani. Molte rivolte falliscono, di molte non sappiamo più nulla. Alcune hanno successo ed è peggio di prima. È un noto e replicatissimo dramma rurale: i villani si ribellano al proprio signore sobillati dai preti, ma solo per finire nelle morbide, inanellate e ancor più avide grinfie del Papa.

Altro discorso è il banditismo rurale, fenomeno endemico di tutto il Mediterraneo che nell’Appennino centrale ha uno dei suoi fulcri più incandescenti. Il termine “bandito”, all’epoca come oggi, viene usato per designare i criminali in genere. Più precisamente il bandito è colui che è incappato in una condanna penale. A volte la pena è l’esilio dalla propria piccola Patria o dall’intero Stato Pontificio, molto più spesso è il condannato che si dà alla macchia per evitare le abnormi pene fisiche previste. Il bandito rurale spesso commette o ha commesso dei reati che sono duramente puniti dall’autorità statale, ma che non sono affatto malvisti dalla società a cui appartiene. Immaginiamoci dei casi plausibili, per chiarire. Il furto violento per fame o povertà estrema. Uccidere un nemico di famiglia, che oltre a essere onorevole è un dovere sociale. Derubare un esattore e magari ruzzolarlo giù per la montagna per fargli scordare la via che porta in queste contrade. Dare fuoco al grano dell’Abate che si arroga diritti sulle terre delle comunanze agrarie e scaccia i villani coi cani e gli sgherri. Tutti questi sono dei delitti capitali, ma allo stesso tempo sono tutte azioni che riscuoterebbero l’approvazione o perlomeno la comprensione popolare. I banditi, se pure ricercati dalla legge, frequentano i loro parenti, amici e compaesani. Continuano a fare parte della comunità da cui vengono protetti e mantenuti. Lo spregio per l’autorità, la connivenza coi fuorilegge e l’omertà sono la regola per la Marca. Il popolo basso, dal quale spesso provengono, è dalla parte dei banditi. La prova archivistica è la grandissima riottosità delle comunità locali nel dare lo sterminio alli loro banniti, come chiede di continuo il Papa.

I popolani non si arruolano volontari nelle milizie dei birri, non fanno la spia, non collaborano in nulla. I cittadini, quando i loro banditi entrano in paese, non solo non cercano di ammazzarli subito come dovrebbero per legge, ma neanche suonano le campane a martello per chiamare gli sbirri. Niente. Inutili gli appelli: è resistenza passiva quando non è insubordinazione aperta. Le autorità pontificie, quindi, assumono mercenari nelle altre contrade dello Stato della Chiesa e inviano spedizioni stagionali di gran soldatesca e sbirraglia per purgare le montagne di quella mala gente. Gli ammazzatori del Papa scorrono gli Appennini, catturano più banditi che possono, eseguono condanne sul posto sine strepitu, interrogano con la tortura i villani conniventi e danno alla torcia i villaggi sospettati di aver dato ospitalità ai banditi. E questo nel migliore dei casi, se eseguono gli ordini e rispettano rigorosamente la legge. Di solito non lo fanno. Nonostante la violenza e il gran dispiego di forze sono tentativi velleitari. Le truppe papaline se ne vanno sempre prima dell’inverno e con la nuova stagione i banditi rispuntano sempre. Come l’asparagetti a primavera.

La situazione si complica parecchio quando il banditismo da fenomeno endemico diventa epidemia dilagante. Nella seconda metà del millecinquecento nello Stato Pontificio le condizioni di vita della popolazione cominciano a peggiorare di brutto. Anni funesti. Raccolti miseri. Con la fame aumentano i crimini dei poveri, con i crimini i banditi, con i banditi la miseria. È un vortice disastroso. La pressione fiscale in continuo aumento; l’accrescersi del capitalismo agrario e non; la crisi finanziaria causata dalle congiunture economiche globali; carestie continue; l’arrivo della piccola era glaciale; il sovrappopolamento. A tutti questi fenomeni viene attribuita la colpa, con vari pesi e in misure differenti, dell’immane esplosione di miseria e di violenza organizzata di fine secolo. Ma non scordiamoci che ad accendere il fuoco sotto questa abnorme catasta di disgrazie sono le autorità dello Stato di Santa Chiesa.

La reazione papale all’aumento della miseria e della criminalità dettata dal bisogno è la repressione più brutale che ci si possa immaginare. I comportamenti criminalizzati aumentano e, nell’impossibilità di catture e punire tutti a dovere, si dà il bando a chiunque, di continuo. E si punisce sempre più severamente. Le pene di morte, eseguite teatralmente e comminate in pubblico, hanno lo scopo di educare il popolo col terrore e l’esempio. È terrorismo educativo, ma più che educare al rispetto delle leggi instilla un panico folle nella popolazione. Centinaia si danno alla macchia anche se non hanno ancora fatto nulla. Con gran sorpresa della Chiesa, più li si punisce duramente e più si emettono bandi, più li pezzenti se fanno banniti. Resta il fatto che la risposta alla miseria continua ad essere il capestro del boia. Non c’è nessun tentativo di capire cosa muova quei malandrini pigri et otiosi (oggi: divanisti). Le autorità pontificie li considerano un unico coacervo di indistinta malvagità. Satelliti de lu demonio, facinorosi, discoli, tristi ribaldi, infame procella, punizione divina. Cavallette, maggiolini, sanguisughe. La loro vita va proibita, dice l’autorità.

Si procede dunque con una nuova fase della guerra ai poveri. Con le leggi promulgate da San Pio V, dal truce francescano Sisto V e dal ben poco clemente Papa Clemente VIII si attaccano le famiglie e le comunità di appartenenza dei banditi. Grazie a loro anche i nuclei familiari dei ricercati vengono criminalizzati e perseguitati. Si espropriano o demoliscono le case di famiglia, si sequestrano i beni e l’animali, si deportano tutti i parenti dei condannati. Delatori e uccisori di banditi sono ricompensati con gran premi e con perdoni papali. C’è perfino la pena di morte per chi ha sentito raccontare qualcosa e non ha fatto subito la spia. Le comunità si spaccano e le spie aumentano anche all’interno delle famiglie stesse. La coesione sociale è distrutta. I Papi, cercando di levare supporto ai fuorilegge vanno all’assalto della società rurale cinquecentesca.

La risposta dei poveri a questa guerra che viene loro mossa è che i banditi, ormai una marea incontrollabile, si organizzano e si sollevano in enormi ondate di illegalismo armato. Le bande sono sempre più grosse e agguerrite. Si alleano fra loro per proteggersi ma anche per assalire con la forza dei numeri. Centinaia di persone marciano in armi devastando lo Stato pontificio: non sono più i soliti banditi di paese. Le masnade sono formate da malviventi e criminali comuni ma anche da contadini spiantati, preti spretati, prostitute, astrologhi, teatranti e buffoni da fiera, bari e ubriaconi di paese, famiglie intere di sventurati qualunque, gente all’avventura. Sono una multiforme, irrefrenabile e disperata marmaglia. Sono i senza potere, gli scarti espulsi dalla società che ora si radunano in armi per farle la guerra. Non era mai successo prima, ma questa è un’epoca balorda nella quale si parte rubando una pagnotta e si finisce in una masnada a menar guasto per il mondo intero.

Per concludere: l’orizzonte rivoluzionario. Quando si nominano i banditi spesso si ha la tendenza a pensare a Robin Hood e in un attimo ci si ritrova a intonare Urca urca tirulero. Le cose sono ben più complicate, come vedremo appena finito di cantare. La vita da bandito è breve e truce, la sua fine è brutale. Le bande armate che devastano lo Stato a fine secolo causano danni enormi a tutti gli strati della popolazione. Spessissimo a pagare il prezzo più alto sono contadini e poveracci. A lo solito: la vita puzza e i buoni non esistono. Però se guardiamo meglio ai nemici dei masnadieri una sagoma sembra prendere forma. Le prede di elezione dei banditi sono l’alto clero, gli esattori e le autorità ecclesiastiche, i grossi contadini (ossia il capitalismo agrario), mercanti ricchi, borghesi benestanti, usurai, accaparratori e speculatori. Sia chiaro che non sto parlando solo di furti e reati veniali, ma anche di sabotaggi, distruzioni di documenti, redistribuzioni di grani ai miseri, sgarri gratuiti all’autorità. Non si trattò di una lotta con obiettivi politici comuni e dichiarati, ma di certo si insorse. Forse fu solo l’estrema difesa di una società rurale aggredita dal mondo moderno. Bracciate disperate per uscire dai gorghi della Storia. Sicuramente fu guerra al potere. Moltissimo è ormai sepolto sotto la polvere dei secoli e molto non è ancora stato raccontato. Posso solo dire che qualcosa si intravede. Guizzi e barlumi nella nebbia, poco più. Non so in cosa credessero i monaci ribelli che diedero l’assalto alle mura dell’Abbazia di Farfa con le armi in pugno. Non possiamo più sapere cosa sognasse il popolo dei monti che metteva al sacco e alla brucia le case dei ricchi. Resta il fatto che, a leggere di guerra al mondo, il cuore libertario sobbalza.

Nel corso delle loro avventure i protagonisti del romanzo si ritrovano nel mezzo dell’assedio di Famagosta (1570-71). Questo episodio viene spesso evocato strumentalmente da fascistoidi, nazionalisti e suprematisti cristiani per dimostrare l’esistenza di una eterna “guerra fra civiltà”: li Turchi contro li Christiani. Nel tuo libro la prospettiva è diversa, come inquadri questo evento?

Io credo che la teoria della “guerra fra civiltà” possa essere sostenuta solo facendo appello all’ignoranza e alla disonestà intellettuale. L’assedio di Famagosta è un evento che viene spesso usato dai suprematisti “Dio Patria Famiglia”, per dimostrare che i bianchi e cristiani sono stati sempre i buoni e tutti gli altri sono sempre stati i cattivi. Il problema è che per far coincidere la realtà storica con certe idee bisogna ricorrere massicciamente alla menzogna e alla censura. La versione suprematista è nota: “L’isola cristiana di Cipro, possedimento della Serenissima Repubblica di Venezia, fu assalita dal Sultano ottomano Selim II che voleva renderla terra d’Islam. Un manipolo di eroici soldati italiani difese la città di Famagosta per quasi un anno. Quando si arresero, i Turchi martirizzarono i loro comandanti e fecero schiavi tutti i soldati, senza motivo”. Intellettuali disonesti e storici mediocri hanno gioco facile: ripetono acriticamente la storia cosi come raccontata dagli italiani dell’epoca e tacciono ciò che non supporta le loro teorie. Solo così la Storia coincide con i classici pregiudizi nazionalisti e cristiani.

La religione è l’ultimo dei motivi per i quali si combatte la guerra di Cipro, benché sia il tema principale anche nella propaganda dell’epoca. Le cause della guerra sono geopolitiche e soprattutto economiche. Cipro è una fonte di grandissime ricchezze per Venezia e non solo. È dominata dai nobili cattolici discendenti dai crociati, dai nobili locali e dagli imprenditori veneziani. I Veneziani e i Frengi, di buon accordo, sfruttano ferocemente la massa dei miseri abitanti greci ortodossi dell’isola. Questi vengono impiegati nella produzione di beni per l’esportazione di massa e producono dolorosamente una gran ricchezza della quale non beneficiano. Cotone, vino, indaco, sale, zucchero: è un modello di estrattivismo coloniale ante-litteram. Se pensiamo a degli schiavi africani in catene in un’isola dove si coltiva la canna da zucchero ci vengono subito in mente i Caraibi dei secoli successivi. Ma questa non è Haiti o la Giamaica del governatore Morgan: succede a Cipro, in pieno Mediterraneo. Qui i cristianissimi Cavalieri di Malta possiedono uno dei tre impianti di produzione di zucchero dell’isola, a Cerines, nel quale impiegano più di trecento schiavi.[2] Gran parte sono negri o mori rapiti direttamente dai nostri eroici cavalieri, noti corsari e predoni. A Cipro, insomma, si fanno grandi affari. La religione conta ben poco. Basti pensare che, quando gli ottomani invadono l’isola, gran parte degli abitanti si schiera con loro. Non singoli scappati di casa, ma intere comunità rurali guidate dai loro preti ortodossi si sottomettono al Sultano senza cambiare religione. Ripeto: senza cambiare religione. L’Impero ottomano non è una teocrazia che dà fuoco per legge ai fedeli di altre confessioni. Il sultano non è mica il Papa.

Veniamo agli eroici soldati italiani di Famagosta. Seimila sono greci, circa duemiladuecento sono italiani e ottocento sono albanesi. Sono tutti mercenari al soldo di Venezia, tranne alcune milizie dei nobili locali. Solo alcuni dei gradi più alti sono ricoperti da veneziani, tutti gli altri, dai capitani in giù, sono italiani del centro e del nord-est. La stragrande maggioranza della soldataglia è composta da marchigiani, umbri e romagnoli. I più arguti a questo punto avranno intuito da dove provengono i prodi soldati italiani: in patria li chiamavano infausta procella, tristi ribaldi, zecche, cavallette, sanguisughe. Banniti. Insomma si decise de combatte lo Male co lo Peggio. Ma tutto questo lo racconto in modo più divertente e con molti più particolari in Storia dei Quaranta.


[1]Si tratta di una famosa storia non ancora scritta. Chissà che un giorno non riesca a trovare abbastanza indizi da poterla raccontare.

[2] Pur non essendo una società schiavista, la nostra era una società con schiavi. Per dirne una: il Papa dopo Lepanto avrà la sua parte di bottino, nella quale figurano anche oltre cinquecento schiavi turchi. Alcuni di questi lavoreranno all’edificazione di San Pietro, prima di essere mandati a morire in miniera.

3 commenti su “Banditi della Marca del Sud”

  1. Ho letto questo libro e sono stata colpita fin dalla copertina (complimenti alla disegnatrice) con il sottotitolo in lingua cinquecentesca. L’ho letto tutto d’un fiato perché è una storia nella Storia, scritta con un linguaggio sorprendente, misto tra la parlata cinquecentesca e il linguaggio attuale. I fatti cruenti che si svolgono , le devastazioni vengono narrati con tale abilità che ci si sente coinvolti emotivamernte e portano a riflettere sulla crudeltà della nostra specie, ieri ed ancora oggi.

    La cornice storica in cui i fatti si svolgono, la città di Amandola, da cui parte la storia,la lotta dei poteri, lo Stato pontificio che impera, i Signori di questi luoghi che difendono i loro privilegi rende questo libro interessante non solo per la storia locale, ma è godibile per tutto il territorio nazionale,
    Complimenti allo scrittore Raoul Dalmasso ed al suo editore , che ne ha riconosciuto il valore.

  2. Giuseppina Marinangeli

    Interessante, molto istruttivo. Naturalmente non conoscevo questa storia. Complimenti e Grazie per il lavoro svolto .

  3. Pingback: Storia dei Quaranta ⥀ Dalle Marche a Famagosta, passando per Venezia

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