Intervista di Nicoletta Grammatico a Laika
Dallo spazio nascono le opere di Laika, street artist e attacchina romana, e allo spazio puntano. Le pensiline degli autobus, le stazioni, i ponti, le mura delle città divengono il luogo prescelto per innestare una radicale critica al sistema contemporaneo, per esprimere il proprio disaccordo. Mordaci e irriverenti, audaci e profondamente critici, i poster dell’artista prendono le mosse dai luoghi che li accolgono per propagarsi ovunque. Lo scopo? Beh, ovviamente, puntare allo spazio. Da questa breve intervista ho cercato di approfondire la poetica alla base del lavoro della street artist, soffermandomi in particolare sul peculiare rapporto che viene istituendosi fra arte, attivismo e spazi della comunità.
«I muri puliti non mi piacciono così come non mi piacciono i popoli muti» – esordisce Laika durante la nostra chiacchierata – «se c’è qualcosa che mi terrorizza è l’indifferenza. Preferisco (a volte amo tantissimo) chi si arrabbia».
Visibilmente incuriosita dalle sue parole, le chiedo qualcosa di più sul progetto. «Laika è una street artist e un’attacchina. Il nome è un omaggio alla cagnetta sovietica, il primo essere vivente ad essere stato nello spazio. Puntare allo spazio significa essere ambiziosi e ambizioso è il progetto di diffondere i miei messaggi ovunque, il più lontano possibile, facendoli arrivare anche a persone non immediatamente vicine a me. Dallo spazio, ossia dall’alto, tutto viene distinto in maniera nitida, conferendomi una visione più completa dei temi che affronto. Temi che chiaramente approfondisco. Il progetto è nato quasi per scherzo: facevo solo stickers e poster ironici su politica e calcio. Poi ho compreso il reale potere che un pezzo di carta incollato a un muro potesse avere e ho continuato con l’intento di diffondere messaggi. Messaggi che parlano di diritti umani, sociali, civili. Cerco di arrivare a tutti: non solo a chi la pensa come me, non solo a chi ha il mio stesso background. È facile raccontarcela tra di noi e dirsi bravi. Voglio arrivare anche a chi non ha il minimo interesse per certi temi: e questa è forse la parte più ambiziosa del lavoro».
I messaggi che l’artista cerca di veicolare sono particolarmente connotati in senso critico ed oppositivo, tant’è che poco dopo aggiunge: «Ho un “io” politico e sociale molto presente: è qualcosa che non riguarda solo la mia vita artistica ed è qualcosa che esiste da prima di Laika. Come espresso in precedenza, restare indifferenti non si può. Ricordo una citazione di Gramsci dire: l’indifferenza è il peso morto della storia, odio gli indifferenti».
Laika, volto bianco e capelli rosso fuoco, è una maschera, «un filtro che elimina tutti gli altri filtri»: «grazie alla maschera sono libera di muovermi in totale anonimato e dire la mia senza che nessuno crei intralcio (ricevo molte minacce). Pensavo che Laika fosse un personaggio “altro” con cui avere un dialogo: col tempo ho realizzato che Laika non è altro che una parte di me resa più forte dalla maschera».
Del suo lavoro, mi affascina soprattutto un aspetto: il simbiotico rapporto fra le sue opere e le mura in cui vengono esposte. Ciò è rilevante poiché pone in primo piano il carattere accessibile, libero dell’arte. E soprattutto, per la scelta profondamente politica di voler istituire un rapporto attivo con lo spazio entro cui ci muoviamo e di cui siamo circondati.
«La città e i suoi muri sono la galleria d’arte più democratica del mondo: puoi scegliere di attaccare un’opera (quasi) ovunque. Per me la scelta del luogo o “cornice” è importantissima. Un muro non vale l’altro, perciò cerco di trovare luoghi che amplifichino il messaggio e che creino un dibattito, un dialogo. Che ci sia una reazione è sempre importante. Negativa o positiva. Ti faccio alcuni esempi: Zaki e Regeni all’ambasciata d’Egitto, Ilaria Salis davanti quella ungherese; Life is not a game sulla rotta balcanica, Never again in mare a Cutro ecc.».
Ci immergiamo presto nei lavori della street artist, cercando di carpirne la genesi compositiva: «all’inizio l’opera è spesso un lavoro di pancia e di testa insieme: ci sono dei temi (migranti, lotta al patriarcato e violenza sulle donne, morti sul lavoro, diritti LGBT+ e antifascismo) che mi spingono maggiormente a realizzare un poster. Se l’argomento che tratto è di attualità (fresco) o se voglio tentare di attirare l’attenzione dei media e del pubblico su un certo tema, il processo è tutto molto veloce: concept, realizzazione in studio (spesso su tela o su carta ma comunque non disdegno le app su tablet in certi casi) e poi mando l’opera a far ingrandire in stamperia in tempi super rapidi. Poi arriva la sera, si prepara la colla nel secchio e si esce. Prima di uscire si fa un piano di logistica in base alla scelta del muro, del luogo dove attaccare. Le opere pensate e i blitz all’estero, più complessi, hanno un processo molto più lento e approfondito e anche la logistica è più complessa. Una volta attaccato il poster, prima che venga rimosso o deturpato, si mette online dove censurarlo è più difficile. E poi sperimento. Sperimento tanto: lavoro su tela, con acrilico, markers, quarzo, stucco (amo le pitture murali, riescono a darti l’idea di strada anche su tela, soprattutto negli sfondi). Faccio poster, istallazioni (Future, Never again, NO DAD) e da un po’ grandi muri (come a Lampedusa). L’importanza principale ce l’ha il messaggio quindi vale tutto».
Eppure la sperimentazione non riguarda solo le tecniche impiegate. I lavori di Laika sono sì opere artistiche ma, al cui interno, è possibile scorgere una continua corrispondenza fra ambiti diversi, siano essi letterari, sociali, politici o inerenti tematiche di attualità. «Il mosaico tematico è tutto: è specchio della mia coscienza politica e sociale. È un processo in continua evoluzione che però ha dei principi, dei valori che mi porto da prima di Laika. Faccio anche opere più leggere o celebrative ma hanno sempre un minimo di dietrologia politica, sociale. Non riesco a fare prati in fiore, con tutto il rispetto per i prati e per i fiori. Ogni tanto evado celebrando la Roma. È un “peccato”, uno sfizio che a volte mi concedo».
Le opere dell’artista, e il loro attacchinaggio in strada, si mostrano allora come esempio concreto della volontà di riappropriarsi degli spazi della comunità, come gesto politico di rivendicazione e come lotta ingaggiata in termini artistici. «Fare street art è il mio modo di esprimere ciò che ho dentro e di fare attivismo. Il rapporto con la strada è molto intimo: la strada è adrenalina, ti accoglie e allo stesso tempo ti espone a pericoli. Il muro riceve la mia opera e poi ne fa ciò che vuole. La gente ne fa ciò che vuole, come se ci fosse una legge non scritta. Il lavoro è effimero: viene censurato, deturpato, si deteriora ma è così che funziona. La strada rende sicuramente il messaggio più fruibile: è più facile comunicare al mainstream. Attaccare sui muri è un modo di riappropriarsi degli spazi della comunità per esprimere le proprie idee, per difendere certi diritti, per lottare contro le ingiustizie. Parte del lavoro vuole essere per la comunità. Spero sempre che i miei poster suscitino una reazione, un’emozione».
E conclude: «se sono diventata ciò che sono devo ringraziare tutti i miei trascorsi, le mie esperienze, i miei errori e… gli attacchinaggi. Laika è sicuramente la sintesi di tutto questo che si mescola al nuovo, al futuro. È una evoluzione continua su una strada lunga: quella per puntare allo spazio».
«E se ci fosse – le chiedo io infine – una cosa che vorresti dire, cosa sarebbe?».
«L’antifascismo non si processa. Palestina libera. Stop al genocidio».